Interludio #14

Dell’estate precedente aveva detto, appena fu entrato settembre, che gli era scappata via dalle mani. Pur iniziata con le migliori speranze e intenzioni, con buono slancio e novità positive, si era presto appannata (anche appassita e avvizzita, avrebbe potuto dire, viste le ripetute ondate di caldo asfissiante). Non aveva saputo mettere quella marcia in più né trovare con continuità quel brio extra che tanto ci si aspetta dalla bella stagione. Era insomma mancata di vitalità; per meglio dire, era lui ad averne avuta poca, spesso mollemente disteso su un divano o perso oltre misura in navigazioni e letture al computer. Ma a poco serviva rammaricarsene, giunto a quel punto; come c’era poco da dare la colpa ai fastidi a un ginocchio o a questo e quell’altro inconveniente. Era chiaro, non tutte le estati riuscivano con il botto; anzi, era proprio raro che brillassero. Le memorabili, amava dire, le contiamo forse sulle dita di una mano. E pazienza se quella non fosse tra queste.

Dell’estate in corso, a metà del mese di luglio non era ancora il tempo di fare un bilancio. Forse, stava persino perdendo l’abitudine di stilare periodicamente un bilancio di quello che succedeva, della vita che viveva, delle stagioni che una dietro l’altra scolorivano.

Una cosa si sentiva però di dirla: quell’estate stava molto poco al computer (un po’ per scelta e un po’ no) e, pur non avendo recuperato chissà quale vitalità rispetto all’anno prima (sul piano fisico si era anzi ulteriormente rattrappito), non che se ne dispiacesse.

Era finalmente in atto quell’operazione di disintossicazione dalla rete a lungo auspicata ma mai praticata con sufficiente radicalità e genuino distacco.

Raggiunto un nuovo e insostenibile limite superiore in quella frenetica e dispersiva quotidianità online sempre più spinta, invasiva e alienante, stava insomma operando una sorta di reset, eliminando gran parte dell’accumulo di superfluo degli ultimi quindici anni ad alta attività elettronica e riavviando il sistema con i pochi elementi essenziali superstiti.

Era come se, giocando al punto banco (e per tanti aspetti la sua vita spesso assomigliava a questo gioco), avesse superato il nove e ora dovesse così ricominciare a contare da zero.

In un certo qual modo, è lo zero il numero fondamentale, non il nove. Tutto ruota intorno allo zero: si sa che il nove è un nove dal punto di vista dello zero; si ha un nove quando il nove, per addizioni successive, va colmando lo zero da cui è partito. E il nove, d’altra parte, è quasi zero. Dopo il nove non c’è niente, salvo lo zero; e lo zero, dopo il nove, opera un annullamento totale, ed è necessario ricominciare a contare.

Esempio: un sette e un sei, sommati, normalmente fanno tredici. Nel gioco del punto banco fanno solo tre. Parto dal sei e conto: sette, otto, nove. Ho tolto tre dal sette, aggiungendolo al sei, e ho fatto nove. Dopo non c’è il dieci, ma lo zero. Quando sono arrivato al punto massimo, nove, ecco che arriva l’annientamento e ricado nello zero. Ho usato quattro punti del sette: me ne rimangono tre. Questi tre punti cominceranno a contare a partire dallo zero e arriveranno fino a tre, non più di uno. Tutto il significato delle facce significanti passa dunque attraverso il significato principale, che è lo zero. Lo zero è il numero fondamentale nel gioco del punto banco. Dà origine al numero massimo, che è il nove; ma ogni volta che i numeri eccedono il nove dovranno ripassare dallo zero, annullando ciò che si è già consolidato, e ricominciare da capo.

(Citazione da Juan José Saer, Cicatrici, traduzione di Gina Maneri, La Nuova Frontiera, Roma 2012, pp. 120-121.)