Che cosa fa una brava traduttrice o un bravo traduttore?

Ci possiamo rompere la testa quanto vogliamo su quale sia la strada migliore per diventare dei bravi traduttori, proporre ognuno di noi la sua personale teoria, ma alla fine le risposte si riducono quasi sempre a cinque, inseparabili:

  1. padronanza pressoché perfetta della lingua d’arrivo (quindi, letture a non finire sempre nella lingua d’arrivo, indifferentemente che questa sia nativa o acquisita);
  2. le proverbiali “diecimila ore” di pratica tra apprendimento della lingua straniera (che sia sul posto, con ottimi insegnanti o solo con grammatiche e dizionari fa poca differenza) e, soprattutto, traduzione di testi da questa lingua;
  3. visione (capire cioè la lingua o il campo dove si aprono più possibilità);
  4. caparbietà, cocciutaggine, ostinazione, passione o come preferite chiamarla;
  5. una buona dose di fortuna (indipendentemente che questo significhi provenire dall’ambiente giusto, fare le esperienze e gli incontri giusti o, semplicemente, trovarsi nel posto giusto al momento giusto).

Se poi ci si aggiungono anche dei buoni geni, ovvero uno o più talenti innati (se c’è, specialmente quello per le lingue), l’essere magari bilingui, il frequentare questo corso e quell’altro, tanto di guadagnato, chiaramente: è quel di più che può portare per davvero all’optimum.

PS Il caso di Deborah Smith, ventottenne traduttrice inglese di The Vegetarian, il romanzo della scrittrice sudcoreana Han Kang che ha visto l’ultimo Man Booker International, è probabilmente un esempio perfetto di quanto sopra. Leggi e ascolta qui, per esempio, per capire perché.