Divertimento citazionista

(3 gennaio 2006)

Traduttori, traduttori! Tanti che ne (mal) parlano, tanti che proprio non ne parlano, tanti che bene o male lo sono, tanti che farebbero carte false per esserlo, tanti che si arrabattano per arrivare a fine mese, tanti che lo sono per sport, tanti che… tanti che non sanno nemmeno loro come sono finiti a esserlo, ma questa adesso è la loro vita, quasi la loro unica ragione di vita.

Come faceva quel blues belga? «Errano ai margini delle opere, depressi o eccitati, che è la stessa cosa, condannati a non essere citati, a passare nel dimenticatoio della creazione».(1)

E quel romanzo argentino, col faro ammonitore di ceramica sulla scrivania, che diceva? «Era da molto tempo che non mi imbattevo in nessuno dei miei colleghi. Eravamo dispersi, e in qualche modo nessuno di noi considerava la traduzione un lavoro definitivo, ma piuttosto una deviazione rispetto alle altre attività. Alcuni avevano voluto essere scrittori, ed erano arrivati alla traduzione. Senza rendermene conto, anch’io avevo preso quella deviazione».(2)

E quella lettera rivendicatrice ai giornali dagli accenti epici? «Siamo noi i cavalieri erranti: del sublime non vogliamo dire, ma l’anonimato lo conosciamo bene. Non rivendichiamo eroismo e il crepuscolo è il fondale di tutti i nostri giorni, ma siamo stanchi di lasciare che c’inghiotta a ogni impresa».(3)

E quell’irriverente e scandaloso canto del caos italiano? «Ah… avessi avuto anch’io la fortuna di nascere traduttore! Me ne starei seduto sul mio pisellino, o sul mio pannolino, se mi fosse capitato di dover tradurre un libro di aforismi di Fred Astaire, oppure di John Weissmuller mentre ho le mie cose. […] Dove siete? Chi siete? Alcuni di voi li ho in mente, li conosco di faccia, li vedo di tanto in tanto nelle fiere internazionali, chiacchieriamo un po’ al bar sorseggiando una bibita su quei tavolini a stilo, o in uno di quei ristoranti self-service, mentre ci spostiamo col cabaret tra la folla, oppure in toilette, se ci capita di trovarci per qualche minuto contro due conchiglie confinanti dell’orinatoio, fanno in tempo a consigliarmi un’opzione sul tal libro, il talaltro, mentre siamo intenti tutti e due a scrollare i nostri uccelli dai colori e dai piumaggi diversi. Vi spostate a sciami tra le fiumane di folla, negli stand, si scorgono da lontano i vostri capelli lisci, increspati, inanellati, imburrati, i vostri capi di altri paesi, di altri continenti. Conosco il vostro lavoro, perché do sempre un’occhiata qua e là quando arrivano sul mio scrittoio le vostre traduzioni. Eppure non saprei a chi di voi affidare una cosa come questa. Forse a qualcuno, o qualcuna, che non conosco, magari tagliato fuori, che neppure a tastare il polso agli esperti potrei rintracciare, che in questo momento se ne sta probabilmente seduto da qualche parte, per terra, con le gambe ripiegate, abbracciandosi le caviglie, e non pensa a niente, non cerca niente, aspetta soltanto, ma non sa che cosa. Vai a sapere in quale paese, in quale continente».(4)

(1) Thilde Barboni, Le blues du chevalier inexistant, «Le Monde», 12 novembre 1999, supplemento libri, pagina II.
(2) Pablo De Santis, La traduzione, traduzione di Elena Rolla, Sellerio, Palermo 2001, p. 12.
(3) Cavalieri erranti della letteratura, lettera aperta alla stampa di un gruppo di traduttori letterari, maggio 2003.
(4) Antonio Moresco, Canti del caos. Prima parte, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 187-188.