Incontri in treno
(16 maggio 2008)
Venerdì 12 novembre 1999. Sono sul treno che da San Benedetto del Tronto mi porta a Misano Adriatico, alla prima lezione del corso «Tradurre la letteratura» che seguirò tutti i venerdì pomeriggio e i sabato mattina dei prossimi cinque mesi e mezzo. Alla stazione, come d’abitudine quando prendo il treno, ho comprato un quotidiano italiano, più uno straniero, nell’occasione il francese «Le Monde», che quel giorno ha il supplemento libri. Comincio a sfogliare e leggere quest’ultimo. Alla seconda pagina, l’occhio cade su un articolo nella parte bassa, titolo Le blues du chevalier inexistant. Di ritorno a casa, non posso fare a meno di tradurlo.
Il blues del cavaliere inesistente
di Thilde Barboni
Errano ai margini delle opere, depressi o eccitati, che è la stessa cosa, condannati a non essere citati, a passare nel dimenticatoio della creazione. Ne hanno abbastanza di questo anonimato. I traduttori esistono! Ma ancora bisogna definire questa esistenza paradossale, nella misura in cui più una traduzione è riuscita e meno si pensa al suo interprete, più è lacunosa e più lo si critica.
Strano viaggio quello del traduttore letterario. Partito alla ricerca dell’immaginario e dell’inconscio di un estraneo, è chiamato a confrontarsi con i suoi limiti interiori e le sue paure più arcaiche. Credeva di comunicare con gioia con un autore, eccolo invece in preda a mille tormenti. Riprende il cammino della creazione in senso inverso (invasione del testo, incorporamento dei campi semantici, estrazione del senso e restituzione nella lingua di arrivo) con a fianco un passeggero clandestino: la parte di sé che gli sfugge. È nel suo interesse conoscersi bene prima di addentrarsi nell’universo di un creatore, prima di impegnare una vera battaglia da inconscio a inconscio.
Non si accede impunemente al mondo delle sensazioni, delle rappresentazioni e dei fantasmi che appartengono all’indicibile prima della trasmutazione operata dal linguaggio. Pericoli di ogni tipo incombono ai margini di questo spazio mentale che l’iniziato dovrà violentare e maltrattare, per estrarne il succo, per rendere in parole quel che è riuscito a recepire. Se si incaglia, se esita, il suo corpo porterà le stimmate della sua impotenza: ulcera allo stomaco, colite, eczema, asma, angoscia, insonnia… Indebolito, cade in trappole azionate dal suo stesso modo di essere, dalla struttura della sua personalità, che tentano di sottrarlo allo stress. Il testo, vero vaso di Pandora, non lo aiuta. La rimozione – «No, quest’autore, tanto amato, non può ragionare così!» – è comoda ma fatale, mentre la sublimazione è inibita dal senso del rispetto, intimidatorio. Le parole torneranno a essere sue alleate, e la sua ricerca finirà, solo dopo aver compiuto un parricidio. L’ammiratore dovrà cedere il posto all’iconoclasta. La sola via di uscita sarà smontare il testo con gioia e fare esercizio di irriverenza. Ed è tanto più paradossale che a questo stadio proverà probabilmente gli stessi sintomi dell’autore e l’empatia, o una reale compassione, gli vieteranno di farsi beffa del modello.
Povero traduttore alienato! Dopo essersi appropriato della personalità dell’autore in modi prossimi al cannibalismo, deve prendere le distanze, restare critico, passare dall’inconscio al conscio ed esprimere in parole quel che ha appena sperimentato. Che paradosso! Questo cannibale iconoclasta, che si è avventurato nell’inconscio di un estraneo sforzandosi di mantenere la dovuta distanza, deve ora addomesticare il linguaggio in piena autonomia, trovare una fluidità lessicale e sintattica assoluta. Compito tanto più ingrato se si considera che le metafore e le analogie più spontanee dell’autore, frutto di un processo creativo vicino alla scrittura automatica, sono le più difficili da rendere nella lingua di arrivo.
Raggiunta la padronanza in questo esercizio pericoloso, nascono le buone traduzioni. Il traduttore si può dire finalmente felice? Affatto. Consegnata la creatura all’editore, cade in una fase depressiva da post-traduzione, una sorta di malinconia legata alla perdita dell’oggetto amato, ma anche alla delusione di avere desacralizzato l’autore e anteposto il principio di realtà al principio di piacere. Ha però una consolazione: è autonomo, non è più alienato. Misero rifugio nella misura in cui si ritrova assetato di riconoscenza, di esistenza. Intorno a lui è il silenzio, nessuno che lo citi. Di qui il timore di non essere stato all’altezza. Perché è ben presente in lui la consapevolezza che ogni traduzione, per meravigliosa che sia, non è mai il calco irreprensibile dell’originale. Come accettare di essere imperfetto quando la meta da raggiungere è la perfezione?
Il libro esce. Il traduttore è abbandonato alle sue falle, al suo ideale di Io maltrattato, alla sua lotta con meccanismi di difesa che finora l’aiutavano a vivere. Ha demistificato l’autore, lo conosce meglio di quanto l’autore non si conosca da sé, ma è lo scrittore che si interroga. È votato alla modestia. Deve tacere, per non usurpare il posto dell’Altro. Cura allora le ferite e, un po’ masochista, si prepara per una nuova avventura.
Si consoli, però. Ha avuto il privilegio di accedere alla sfera delle emozioni, è riuscito a imboccare la via della loro espressione attraverso il linguaggio. E non è stato il solo a compiere questo viaggio lungo e faticoso: come lui altri traduttori, certo, ma anche autori, pittori, musicisti e artisti hanno esplorato quello spazio intermedio tra l’inconscio e la sua espressione privilegiata, che va sotto il nome di arte. (nm)
Traduttrice e psicologa clinica di formazione, Thilde Barboni è autrice di romanzi e critica letteraria alla Radiotelevisione belga francofona (Rtbf). È docente di traduzione alla Scuola per interpreti internazionali (Eii) e all’Istituto di linguistica dell’Università di Mons (Umh); insegna psicologia e traduzione al Centro europeo di traduzione letteraria (Cetl), a Bruxelles.