Un nuovo tipo di lettore
(22 dicembre 2005)
Il 1997 – anno per altri versi assai duro (un incidente a mia madre mi costrinse, da maggio a novembre, a sobbarcarmi un sostanzioso carico di lavoro a casa, specie nella piccola azienda agricola di famiglia) – mantenne sul fronte traduttivo tutte le buone promesse del 1996, con una crescita sia quantitativa (dalla ventina di articoli pubblicati l’anno prima si passa a una settantina) sia qualitativa (questo è abbastanza normale: più traduci, più ti eserciti, più prendi nota delle fondamentali correzioni altrui ai tuoi errori più ricorrenti, e più, in generale, prendi coscienza delle tue capacità e dei tuoi limiti e, di conseguenza, cerchi nei limiti del possibile di migliorare).
E presto, sulle ali di un entusiasmo ritrovato e un impegno più che raddoppiato, avrei cominciato a tradurre qualcosina anche da francese e spagnolo.
Ma restando per il momento al dominio inglese, una delle traduzioni che amo di più di quest’anno è sicuramente quella che segue, tratta dall’«Independent» del 7 febbraio 1997, p. 2, titolo originale It starts with an E, e pubblicata sul numero 179 di «Internazionale», 1 maggio 1997, pp. 41-42.
Trainspotting in concerto
L’industria editoriale britannica cerca di conquistare i giovani lettori innamorati del libro di Irvine Welsh. Benvenuti nel salotto letterario del Duemila
di John Walsh
Trainspotting, il romanzo dello scozzese Irvine Welsh, e il film che ne è stato tratto sono diventati il mito delle nuove generazioni e hanno fatto scoprire agli editori britannici l’esistenza di un nuovo tipo di lettore. È nata la moda delle serate di lettura di voci nuove della letteratura organizzate nei club dove di solito spopola la musica rock. Ma questi nuovi chiassosi salotti letterari non sembrano mantenere tutte le loro promesse.
LONDRA, 7 FEBBRAIO 1997
Top blag, annuncia l’etichetta sul mio lasciapassare. Pensavo che fosse una variante di “Ospite Vip”, ma ho dovuto subito ricredermi quando, in fila al guardaroba, mi sono ritrovato schiacciato tra un motociclista spilungone tutto cuoio che si stava liberando da caterve di arnesi contro il freddo, come uno scaldabagno supercoibentato deciso puntigliosamente a disfarsi di tutto il rivestimento isolante, e due ragazze strafatte con trucco da Vampirella e spillone d’argento sul labbro. Erano le undici e un quarto di sera al The End, un locale rave alla moda dalle parti di New Oxford Street, a Londra, e io stavo per scoprire un genere letterario completamente nuovo.
Sicuro che lo si possa definire nuovo? L’idea di abbinare recital di brani letterari e musica d’avanguardia non è esattamente l’ultima trovata. Edith Sitwell, che declamava con un megafono i ritmi sincopati di Façade, nascosta dietro una tenda e accompagnata dal rotto starnazzare della partitura musicale di William Walton, può giustamente ritenersi una precorritrice del genere – la cosa risale al 1923. Ma quella a cui assisto al The End è ben più che una semplice performance. Si celebra l’incontro tra letteratura e strada, tra la generazione del Times Literary Supplement e quella dell’ecstasy. Quando il romanzo Trainspotting di Irvine Welsh si è piazzato al decimo posto nella classifica Waterstone dei cento “libri del secolo”, i commentatori si sono affrettati a dire che, per molti giovani tra i 18 e i 25 anni, i racconti assurdi e i miti urbani sulla vita dei tossici nelle viuzze di Leith ideati da Welsh costituivano probabilmente l’unica seria opera narrativa per adulti che avrebbero mai letto.
Rivedere i parametri
Dopo che Trainspotting è diventato una commedia e un film di grande successo, due cose sono risultate evidenti. Primo, che i parametri di ciò che può essere considerato letteratura andrebbero rivisti, riconoscendo così a Welsh – che è di fatto uno scrittore di grande talento – piena dignità letteraria; secondo, che al mare sconosciuto dei fan di Welsh, al loro ridestato interesse per la lettura, andava fornita subito della nuova narrativa. Ha quindi preso piede un filone letterario che esplora le espressioni più imprevedibili di questo nuovo Zeitgeist: un ibrido di misticismo new age, frequentazioni telematiche, droghe “cool”, feste rave e musica techno che si muove tra romanzo classico e fantascienza, tra studi culturali e autobiografia. Nomi come Douglas Rushkoff e Jeff Noon, Martin Millar e Alan Warner fanno a gara per diventare le controparti britanniche dell’americano Douglas Coupland, l’autore del visionario Generazione x.
Questi nomi li si può ritrovare tutti su Disco Biscuits, un’antologia di scritti curata da Sarah Champion che ha come sottotitolo “La nuova narrativa della generazione chimica”. Intesa come un tributo ai dieci anni di cultura “acid house”, l’antologia è un documento tremendamente cupo che scorrazza tra malesseri, overdosi, paranoia, violenza e abbandono, infarcito del lessico in voga nei club, da “bpms” (battiti per minuto) a “coming up” (fatto di droga), a tutta una serie di variazioni intorno alle parole “atmosfera” e “groove”. L’idea che sta dietro all’evento organizzato al The End – ripresa poi anche a Leeds e a Birmingham – è vedere se i clienti gradiscono che nell’ambiente di un club si leggano loro brani di prosa, che gli si ritrasmettano messaggi e istantanee presi dalla loro stessa cultura.
Il palco è un piccolo tavolo da dove un grosso e vanitoso maestro di cerimonie di nome Trevor esorta il pubblico ad acquistare Disco Biscuits. Tutto fa credere che Trevor ne sappia poco o niente dei libri della classifica Waterstone. Eccolo comunque annunciare Nicholas Blincoe, da Rochdale, che legge un passo dal suo racconto ammonitorio Ardwick Green, storia di un tale di nome Conrad, violento pregiudicato, e di ciò che riesce a combinare nella toilette per signori di un locale. Douglas Rushkoff, uno smilzo newyorkese di carnagione scura che trasuda intelligenza, timidamente cita un pezzo del suo racconto su un assiduo frequentatore di club che in fin di vita riflette sul suo destino rovinoso. Il racconto comincia con un lamento: “In Inghilterra un rave vuol dire una scorribanda in macchina. A San Francisco vuol dire andare in spiaggia. Ma a New York vuol dire una corsa in metropolitana (con due cambi di linea) attraverso tunnel puzzolenti di piscio infestati di ratti, barboni e poliziotti; vuol dire stare in fila al freddo e aspettare che un armadio con la ricetrasmittente decida se sei abbastanza calmo o ricco da poterti lasciar entrare”.
Jeff Noon, un tipo piccolo in camicia rossa e dall’aspetto rubizzo di uno che viene dalle periferie, legge un brano del racconto che dà il titolo all’intera raccolta: un’elaborata fantasia ambientata in un futuro che vede la scena acid controllata dal governo e dove la sigla “dj” starebbe a significare “Dirty Judas”, sporco traditore. Quindi, facendosi largo tra la folla, davanti al piccolo palco si affacciano telecamere e microfoni. Siamo forse al momento clou della serata? Ma sì, ecco Irvine Welsh, la star dello spettacolo, una vera e propria visione la sua testa pelata, il giaccone peruviano, le scarpe rosse lucide. Dà subito prova di essere l’unico vero professionista di questa curiosa nuova forma di arte. “Questo è qualcosa che ho scritto quando ero povero, non un ricco fighetto come oggi”, esordisce salutando il pubblico, e da un unico foglio comincia a leggere passi di un surrealismo un po’ emetico. Come quando narra della madre di un personaggio che estrae dalla vagina un blocchetto di francobolli, un biglietto dell’autobus, una lista della spesa e una banconota da venti sterline. Grandi applausi accompagnano il suo arrivo sul palco e la fine della sua esibizione. Nella battaglia culturale in corso, Welsh è l’indiscusso beniamino delle truppe.
Come un singolo di successo
Viene il sospetto che la folla apprezzi di più l’esibizione di Welsh che non quella degli altri autori non solo perché è più famoso, ma perché ha offerto l’equivalente di un singolo musicale di tre minuti: veloce, grezzo e stupido, ma incontestabilmente diretto. Il guaio dei suoi colleghi è che leggendo brani delle loro avventure discotecare non riescono a trasmettere l’idea di un impianto narrativo, non producono effetto scenico. I brani non hanno niente a che vedere con la poesia, con il rap, con la musica o il canto, o con i ritmi della letteratura. Questo materiale narrativo così gergale, aneddotico ed effimero non può che suonare piattamente conversazionale. Si possono vedere gli occhi della gente farsi vitrei mentre Charles Hall narra le sue reminiscenze fatue (“L’atmosfera era perfetta: underground e piacevole. I ragazzi all’ingresso erano gelatissimi dal freddo… Io arrivavo con gli amici del branco, tutti allegri e eccitati di passare insieme una bella sera d’estate”), per rianimarsi solo durante un lungo monologo di Irvine Welsh, Headstate, recitato in uno stile da one man show da Tam Dean Burn, collaboratore di lunga data di Welsh.
Da un piedistallo emerge solo la testa di Burn, calva e incorporea; intorno ci sono televisori che proiettano convulse immagini della vita nelle discoteche. L’effetto è come se il parossismo interno al monologo avesse un corrispettivo visivo all’esterno. È un nonsense estatico (“Voglio trascorrere il resto dell’esistenza in visioni rapite”), ma è difficile distogliere lo sguardo da questo repellente teatro delle marionette. Più tardi, nel salottino vip del locale prevale una curiosa atmosfera mista di lerciume e gentilezza. Il salottino è una brutta sala interna con tubi metallici a vista, un divano scuro e un distributore di birra Grolsch, ma tutti si comportano come se fossero alla River Room del Savoy. Nella toilette – dove si va con una certa trepidazione, ricordando le ossessioni del protagonista di Trainspotting sulla tazza del cesso – la prima cosa che salta agli occhi è una confezione di deodorante Gled “Potpourri Bouquet”, non proprio in stile Irvine Welsh. Uno scozzese tarchiato mi offre dell’hashish, ma in una piccola pipa di mogano, come se offrisse del tabacco da fiuto in una biblioteca.
Incontro Sarah Champion, 26 anni, la curatrice dell’antologia. È di Manchester, si occupa come giornalista di musica da discoteca e di quanto ruota intorno ai club. Dice che Disco Biscuits vuole essere un tributo ai dieci anni della scena acid house. “Volevo una celebrazione, ma questo non significa che tutto sia andato per il meglio”, dichiara. È rimasta sorpresa dallo squallore delle storie raccontate? “Pensavo che sarebbero state più intrise di nostalgia, ma in fondo è nella natura della narrativa privilegiare i temi squallidi quando le cose vanno male. Scrivere di cose positive non acchiappa molto”.
La Champion è un’entusiasta sostenitrice della cultura rave e dei suoi annessi sotto il profilo musicale e delle droghe. “Penso che l’acid house abbia salvato un mucchio di persone, togliendole alla strada che porta al crack, all’eroina e all’alcolismo”, non esita a dire. Considera l’ecstasy una cosa buona? “Quando stai in un locale di duemila persone che ballano, che sorridono, che si stringono l’una all’altra, persone che non vogliono sapere dove vai a scuola o dove lavori – beh…”.
Getto un’occhiata alla curiosa compagnia che riempie questa piccola stanza scalcinata. Irvine Welsh mima qualcosa a un microfono e sparge sorrisi radiosi. Trevor il dj e gli altri ascoltano attentamente ogni sua parola, condividendo un’aria di profondo divertimento. Ma è veramente questo il salotto letterario del nuovo secolo? (nm)