Pot-pourri on translation
(1 ottobre 2012)
Ma com’è che tu, che all’inizio degli anni zero eri visibilmente preso dalle traduzioni, nonché dalle discussioni e le iniziative su traduzione e dintorni che all’epoca prendevano vita sulle maggiori mailing list del settore (Biblit, Langit ecc.) e investivano anche importanti blog letterari, da diversi anni a questa parte sembri non curartene più tanto, mostrando viceversa un crescente disinteresse e distacco nei confronti di tutto ciò che per un verso o per l’altro investe la tua professione?
Non so fornire una spiegazione precisa. So solo che, dopo alcuni anni ad alta intensità lavorativa e anche partecipativa (soprattutto il quinquennio 1998-2003), da un certo punto in poi (suppergiù dal 2005-2006) è cominciato a emergere un profondo senso di stanchezza, non più reprimibile, non più trascurabile.
In particolare, di colpo mi sono venuti estremamente a noia i discorsi individuali e collettivi sulla traduzione, che spesso mi sapevano di “aria fritta”, con il reiterato arroccarsi di ciascuno sulle proprie posizioni di partenza.
Da qui anche il mio sostanziale silenzio pubblico sulla materia, rispetto alla esagerata “loquacità” precedente.
Ciò non toglie che qualche idea abbia continuata a nutrirla e, qua e là, anche esprimerla. Da cui questo pot-pourri riassuntivo.
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Parto da quello che fu uno dei miei ultimi veri messaggi su una mailing list (su Biblit, per la precisione, l’8 ottobre 2005), l’espressione del mio pensiero di allora (e, in gran parte, anche quello di oggi) sul mondo della traduzione editoriale. La discussione era iniziata con la segnalazione di un articolo sulla morte di un intellettuale precario, e a un certo punto in un intervento si era sostenuto che «Questo non è un lavoro per tutti. Le scuole superiori di traduzione sono sorte come funghi d’autunno e stanno sfornando un sacco di aspiranti destinati a lunghi anni di frustrazione ma poi, come cantava Morandi, “uno su mille ce la fa”». Io, nello spirito kamikaze che a quei tempi ancora un poco mi contraddistingueva, rispondevo così:
Il punto, […] almeno per come la vedo io, è che abbiamo davanti anche un “fior fiore” di aspiranti che, pur incontrando un mercato editoriale molto più intasato e saturo rispetto alle generazioni che li hanno preceduti, mediamente hanno una marcia in più rispetto a tanti di noi, per dire, trenta-quarantenni: con ogni probabilità hanno fatto e/o faranno corsi e master specifici (con insegnanti più che qualificati, ovvero traduttori professionisti di primi livello […]), così come stage mirati in case editrici; conoscono internet come le loro tasche almeno da quando erano adolescenti, così come ben presto hanno avuto a disposizione satellite e dvd; hanno fatto e/o faranno molti più viaggi all’estero, di studio e non; le (basilari) occasioni d’incontro diretto con gli editori – presentazioni, fiere e iniziative culturali varie – sono oggi molte più di un tempo; e via dicendo.
Insomma, chi oggi decide di voler fare il traduttore ha, a mio avviso, possibilità e strumenti molto superiori a quelli avuti da noi ormai “vecchietti”, che dalla nostra possiamo giusto avere un po’ di mestiere acquisito e contatti più o meno consolidati […]. Per me, ripeto, ne hanno le piene capacità e, se solo si sanno muovere con un minimo di intelligenza, coraggio e determinazione, ben più di uno su mille ce la farà, e senza nemmeno troppi anni di frustrazione.
Più facile, invece, che la frustrazione prenda quelli di noi che stanno nel mezzo e che, per arrivare dove sono arrivati, spesso hanno dovuto spendere una quantità spropositata di energia, fisica e nervosa, anche col rischio, a volte, di restare completamente a secco e poi faticare molto a ripartire, se non addirittura incepparsi per sempre, come l’intellettuale precario dell’oggetto di questo messaggio.
Il frammento successivo è invece un commento scritto il 12 maggio 2006 (in risposta a un post sul blog collettivo traslochi che allora avevo creato e che cercavo di gestire), ma, avendo perso lo spirito battagliero di un tempo, mai postato, per evitare di attirarmi addosso, come da abitudine, repliche più o meno risentite. Non so dire se o quanto oggi lo condivida ancora, ma tant’è, eccolo qui.
Da qualche tempo sono del parere che insistere tanto – come si è fatto negli ultimi anni e ancora si continua a fare – sulla autorialità del traduttore sia stato, al di là di una innegabile piccola gratificazione morale per chi fa questo mestiere, un certo errore sul piano più strettamente materiale.
Perché se il traduttore (letterario) è da identificare con un autore (invisibile, secondo, doppio o come altro lo si voglia definire), a lei/lui va riservato anche sul piano del lavoro pratico un trattamento grosso modo simile a quello di un autore. Ma questo cosa comporta?
Che il traduttore – come l’autore e più dell’autore (quest’ultimo, infatti, se non è tra quelli che pagano da sé la pubblicazione dei propri libri, sempre più spesso ricorre alla figura dell’agente) – è chiamato a confrontarsi e a contrattare del tutto individualmente con l’editore, il suo effettivo datore di lavoro. Per presto scoprire che, anche se fa questo mestiere a tempo pieno, il suo è un lavoro all’insegna della massima precarietà; anzi, essendo assoggettato totalmente alla disciplina del diritto d’autore e, in quanto tale, non prefigurando per esempio il versamento di contributi assistenziali e pensionistici obbligatori, è come se non risultasse affatto un lavoro, ma più un semplice hobby, con quel che ne segue.
Per questo, tante volte io preferirei che si insistesse un po’ meno sulla autorialità del traduttore (che, tra l’altro, resta un tema molto controverso) e un po’ di più sulla materialità del suo lavoro; preferirei cioè che, almeno per chi fa questo mestiere di professione, a tempo pieno, si riconoscesse che siamo in presenza di un lavoro a tutti gli effetti e, perciò, va in qualche misura meglio disciplinato, tutelato ecc. In caso contrario, per come stanno adesso le cose, non solo più invisibile che autore, ma anche più invisibile che lavoratore.
Il terzo frammento è un collage di commenti, il 2 dicembre 2006, a un post sul blog «Lipperatura» che riproponeva un articolo di Eva Milan intitolato I call center dei traduttori.
Trovo molto di condivisibile nell’intervento: la sensazione generale che provo, da traduttore editoriale, è quella lì […]. Non che abbia vissuto sulla mia pelle esperienze disastrose (in linea di massima, anzi, credo di essere stato abbastanza fortunato nei miei rapporti con il mondo editoriale), ma il costante clima di precarietà e pressione e tensione e logorio si fa sentire dopo anni che lavori quasi sempre dodici ore al giorno, sette giorni su sette, tutte o quasi le sante settimane dell’anno. Così che tante volte finisci per dirti: “Ma chi me lo fa fare? Che cosa ci guadagno? La gloria?”.
Sul discorso [sollevato in un commento] «i traduttori che cosa stanno facendo?», non è che in questi ultimi anni non si sia fatto proprio nulla. Qualcosa sicuramente si è fatto, e ancora si sta facendo. L’opera svolta dalle liste di discussione, per esempio, è stata importantissima per rompere la situazione di quasi totale isolamento dei traduttori che vigeva prima. E se penso alla «mailing list di traduttori molto frequentata» cui credo si alludesse nel commento, ossia Biblit […], questa ha anche fatto molto per cercare di allargare il discorso e sensibilizzare il mondo esterno, a partire dai giornali (troppo spesso rei […] di indicare di un libro tradotto il numero delle pagine, il costo, ma non il nome del traduttore o più spesso della traduttrice). E sulla stessa linea, esemplare è anche il lavoro condotto da Ilide Carmignani con gli incontri dell’Autore Invisibile alla Fiera del Libro di Torino e con Le giornate della traduzione letteraria di Urbino, in collaborazione con Stefano Arduini. E, ancora, preziosa è da [diversi] anni La Nota del Traduttore, al pari del sito del Tariffometro, come ottimi sono stati, su Radio 3, i tre cicli della trasmissione di Massimo Ortelio Una specie di follia. Il mestiere del traduttore, l’ultimo finito la scorsa settimana. E poi c’è stata la creazione della Sezione traduttori del Sindacato scrittori [oggi diventata autonoma, dando vita a Strade], così come è tornata probabilmente a vivacizzarsi Aiti. E tante altre iniziative ancora.
Insomma, non è che i traduttori non stiano facendo niente. Quello che ancora manca, forse, è un’identità di vedute o, perlomeno, una volontà di arrivare a una sintesi, a una sorta di simbiosi, a una messa in comune delle proprie esperienze in vista di un obiettivo più ampio, cercando magari anche delle alleanze strategiche con quelli che secondo me sono gli interlocutori primari, ovvero i redattori, i correttori di bozze e, più in generale, tutti quei «lavoratori dei saperi e della cultura» che condividono la situazione di precarietà ben descritta da Eva Milan.
[…] il problema è che quella dei traduttori è una realtà molto ampia e diversificata, ed è così difficile trovare un punto d’intesa comune. Di solito, quando si parla di traduttore si sottintende “letterario”, ovvero quello che traduce in prevalenza narrativa (o al limite poesia e saggistica), ma accanto a questa categoria ce ne sono molte altre. Io, per esempio, da traduttore più che altro di articoli di giornale e di saggi, mi considero un “editoriale”, […] come pure trovo in qualche modo deleteria l’identificazione totale del traduttore (letterario) con un autore, specie se poi si vuole portare avanti un discorso sindacale. Insomma, almeno per come la vedo io, ci sono ancora molte cose da chiarire e da chiarirsi (io in primis).
A distanza di sei anni, suppergiù sono ancora di queste idee, seppur su certi punti un po’ meno categorico e su altri forse più possibilista. Faccio insomma mie le sagge parole di Adriano Sofri in uno status su Facebook:
[…] guardarsi dall’usare l’espressione “senza se e senza ma”. Quell’espressione, bruttissima sicché ha avuto una gran fortuna, equivale a bruciarsi i vascelli alle spalle. Quando si vuole tornare indietro, quel “senza se e senza ma” è un fossato insuperabile anche da un salto mortale. Valga per il futuro: le tue posizioni siano nette, come insegna il vangelo, ma prima chiediti se, però…