Inghilterra. Primo amore, strano amore

London

(~ giugno 1992)

Cos’è che porta la mente di un ragazzino a innamorarsi di un’idea, del concetto che si è fatto di un posto mai visto, di cui sa poco e niente, anziché aderire alla realtà che lo circonda, lo corteggia, gli vuol bene, ma che lui si limita a osservare, a tollerare, da ultimo a subirne il peso e la noia?

Ero poco più che un bambino, timido e obbediente, scrupoloso, attento, lavoratore, e con tanta energia per correre, inseguire il pallone e bloccare gli avversari. Un buon terzino marcatore, in tutti i sensi, nel gioco come nella vita. Non osavo, non facevo mai più di tanto, ma ero sempre pronto a intervenire, a stoppare le incursioni maldestre, a profittare di una certa perspicacia innata.

A scuola ero bravo, senza essere un secchione. Studiavo solo la sera, apparecchiando il tavolo di libri appena prima che i miei rientrassero per cena, mentre il pomeriggio ero impegnato in giochi e progetti solitari o a dare una mano in campagna, anche senza esserne richiesto.

Con i compagni del paese mi ritrovavo solo per andare a rinnovare l’ennesima sfida di pallone con il paese vicino, e la domenica in chiesa e in sala parrocchiale. La mattina non ci vedevamo quasi più, la maggioranza faceva le medie lì al paese vicino, un paio erano in collegio dai frati, io e un altro andavamo in città con i più grandi, pressandoci come sardine dentro i pullman.

Io arrivavo sempre per un pelo, mi piaceva dormire fino all’ultimo, facevo salire mamma a chiamarmi più e più volte, poi ingaggiavo una gara all’ultimo respiro con l’autobus in corsa sulla collina e io in bici sulla strada parallela del piano.

Quindi mi ritrovavo a scuola con i compagni di città.

Stavo bene con loro, mi ero ben inserito, avevo anche perso parte della mia timidezza, specie verso le ragazze, ridevamo, scherzavamo, noi maschi le prendevamo regolarmente da loro a pallavolo, erano in gamba, erano belle, a noi certo non ci filavamo, già impegnate in altre dispute con gente più grande di noi, ma erano ugualmente simpatiche, eravamo uniti, un bel gruppo.

È lì alle medie che ho incontrato l’Inghilterra, l’inglese. Ed è stato amore al primo colpo.

Mi piaceva il modo di essere degli inglesi, indaffarati, dotati di humour e self-control, amanti del quieto vivere, della privacy, dei parchi, delle case con giardino, scrupolosi fino a sfiorare il ridicolo nel rispetto di tradizioni e cerimonie.

Mi rendevo conto che era un’immagine stereotipata, ma mi piaceva. Mi piaceva la verde campagna inglese, mi piacevano gli autobus a due piani, mi piaceva che l’Inghilterra potesse vantare una storia eccezionale, di essere stata la prima quasi dappertutto.

Al contempo avevo paura, temevo che la mia bella immagine potesse rivelarsi errata a un’indagine sul campo. Così non ho mai pensato seriamente di appagare il mio innamoramento recandomi sul posto.

All’epoca, del resto, sarebbe stato difficile per un campagnolo come me. Ma anche in seguito, quando di fatto avrei potuto, mi sono tirato indietro, all’ultimo momento, con la scusa di dover essere d’aiuto ai miei, di non poterli abbandonare proprio d’estate, nel periodo di massimo lavoro in campagna.

Sciocchezze: è che non volevo, non me la sentivo, così legato all’immagine superlativa che mi ero fatto dell’Inghilterra, negli anni arricchitasi dell’ammirazione per i gruppi rock, che temevo di sciuparla, di perderla nell’impatto con la realtà. Non ero ancora pronto, sufficientemente libero e senza timori, più che vaccinato alle delusioni.

Ma lo scorso anno [il 1991] alla fine sono andato. Ho mollato tutto e sono andato, ormai non avevo più nulla da perdere, avevo gettato alle ortiche illusioni e sogni di gloria, mi ero liberato di vincoli e pregiudizi, non avevo più paura di una brutta sorpresa, volevo gettare le basi di una nuova esistenza e, per questo, ripartire da quello che era il sogno inevaso di sempre: l’Inghilterra.

Non è stata una lunga permanenza; anzi, il tempo di vedere quello che ritenevo di dover vedere e sono tornato a casa. Ma non è stato certo un brutto sogno o una cocente delusione: è stato un bel sogno, breve ma intenso, avvincente.

Sono partito col treno un pomeriggio di fine agosto, nei giorni in cui al paese era la festa patronale, con uno zaino stracarico di maglioni e ricambi, convinto di dover incontrare chissà quale tempaccio, e una buona scorta di panini per il viaggio.

Arrivo a Parigi verso le dieci di mattina, prendo una camera in un alberghetto nei pressi della Gare de Lyon ed esco per l’intera giornata in un giro panoramico della città. Non so il francese, ma fa niente, me la cavo lo stesso.

La mattina seguente sono pronto per prendere il treno per Boulogne Maritime. E finalmente eccomi sul ponte superiore del traghetto a godermi gli spruzzi d’acqua e l’aria acre della Manica.

Giungo a Folkestone, ed è Inghilterra!

Le schiere di case basse, i mattoni scuri, le sequenze di comignoli sui tetti spioventi, la dolce campagna, le nuvole veloci.

Alle quattro del pomeriggio atterro, letteralmente, a Londra, Victoria Station.

Non so se credere ai miei occhi o se sogno: sono nel cuore dell’Impero, il centro ideale dei sogni di sempre.

Al banco delle informazioni mi prenotano un posto letto in un ostello del centro, il Central London Hotel, proprio dietro Hyde Park, un’ampia camera con sei letti a castello e colazione al mattino. Per i miei bisogni è perfetto.

Gironzolo estasiato per Hyde Park e prendo confidenza con “The Tube”, la London Underground. Mi trovo a mio agio, è una meraviglia, non devo rendere conto a nessuno, sono libero di andare dove e come voglio, infine a Londra.

Eccomi in Oxford Street, ecco il megastore Virgin. Ecco Regent Street, ecco Carnaby Street, ecco Soho…

E via, per cinque giorni in giro un po’ dappertutto: Piccadilly, Trafalgar, National Gallery, British Museum, Regent Garden, St Paul’s, la City, i Docks, Buckingham, Westminster, Harrod’s, King’s Road, Chelsea, Kensington, Portobello… Imbattendomi nel Notting Hill Festival, nel Covent Garden Children Festival e altro. Mangiando da Mc Donald’s o Burger King. Finendo ogni sera sfinito e felice sopra il letto.

Poi di nuovo in treno, Dover, il traghetto, Calais, in sacco a pelo a Parigi di notte fuori dalla Gare de Lyon, quindi Losanna, Milano, Bologna, e casa, a riposare dalle fatiche e a rimpiangere di non essere più là, ma soddisfatto per essere riuscito, una volta tanto, a concretare un sogno, un bel sogno.

Chi scrisse nel diario: «Ama e vivi finché puoi
perché i giorni felici sono come parole
scritte sui vetri appannati»?