Note al traduttore

(22 aprile 2022)

[Anni fa, per esattezza agosto 2015, fui contattato da una collaboratrice di tempoxme.it, nell’ambito di una rubrica ospitata su quel sito e intitolata “Note al traduttore”: si trattava di rispondere ad alcune domande sulla traduzione e il mestiere di traduttore. Lusingato, accettai. Ne venne fuori la cosa più lunga (fin troppo) e articolata che abbia mai scritto in materia, dopo qualche giorno pubblicata sul sito, accanto agli interventi di apprezzati e più rinomati colleghi. A anni di distanza, sul sito in discussione purtroppo non c’è più traccia di quelle note. Previa attenta rilettura e ritocchi minimi, le ripropongo allora qui.]

 

1. Da quale lingua traduci e di che tipo di traduzioni ti occupi?

Traduco dall’inglese, dal francese e dallo spagnolo; ma salvo casi speciali o esigenze particolari degli editori, per i libri mi limito all’inglese. In genere opero nell’ambito della saggistica e del giornalismo: diciamo che per le traduzioni “in forma lunga” il mio settore di elezione è la non-fiction ad ampio raggio, meglio se di taglio vagamente narrativo e letterario; per le traduzioni “in forma breve”, cioè in fatto di articoli di giornali e riviste, traduco – o quanto meno traducevo fino a qualche anno fa, prima che la cosa mi venisse un po’ a noia – di tutto e di più.

2. Per quali case editrici hai lavorato?

Anche qui devo distinguere: il grosso della mia attività di traduttore è per lungo tempo consistito nelle traduzioni di articoli di giornali e riviste di tutto il mondo per diverse testate italiane. Per quindici anni, in particolare, ho tradotto con continuità e intensità per il settimanale «Internazionale», mentre l’esordio e il trampolino di lancio sono stati con il trimestrale «Lettera internazionale» e, se si può dire, la ciliegina sulla torta è stata il mensile «la Rivista dei Libri», a lungo l’edizione italiana della prestigiosa «New York Review of Books». Degne di note, inoltre, diverse traduzioni per il trimestrale sui nuovi media «Telèma» e un’apparizione volontaria sul semestrale di teoria e pratica della traduzione «Testo a Fronte», traducendo due capitoli di Poétique du traduire di Henry Meschonnic.

Passando invece ai libri, ho lavorato per Fazi, Luca Sossella, Baldini Castoldi Dalai, Blu Edizioni, minimum fax, Laterza, Alet, La Nuova Frontiera, Codice, Hoepli.

3. Qual è il libro più bello che hai tradotto?

Pur con la fatica e sofferenza che mi è costato, direi La camicia di ghiaccio di William T. Vollmann, per Alet [nel 2019, ripubblicato da minimum fax]. Non rientrando nelle mie traduzioni abituali – un romanzo, anziché il solito saggio – ed essendo, come l’autore, parecchio singolare, mi ha significativamente impegnato e provato; a conti fatti, penso comunque che sia venuta fuori una buona traduzione.

4. Qual è stato il libro che ti ha impegnato di più nella resa perché proprio mal scritto? E quale scrittore avresti voluto (o vorresti) tradurre?

Libri impegnativi, anche rognosi e con un iter traduttivo complicato sì, ma «proprio mal scritti» direi di non averne tradotti. Se devo esprimere un giudizio, direi che è facile trovare testi abborracciati a livello di articoli di giornale, specie se la testata di provenienza non è delle più prestigiose. Ma dove c’è una buona cura redazionale all’origine, come in genere succede nelle case editrici e anche nei migliori periodici, è raro che un testo superi il varco della pubblicazione se davvero mal scritto. Da qui anche l’importanza che autori attenti alla qualità, più che alla quantità, continuino a passare attraverso il vaglio severo di seri editori non a pagamento e la cura scrupolosa di una valida redazione, malgrado le facili sirene dell’autopubblicazione o le lusinghe di chi in cambio di uno sbrigativo “visto si stampi” promette solo una risibile visibilità.

Quanto allo scrittore che avrei voluto o vorrei tradurre, un traduttore medio e anche abbastanza ai margini dei giri editoriali che contano – quale io mi ritengo – ha purtroppo scarsa voce in capitolo sui testi che gli vengono affidati. Puoi avere dei generi e degli autori preferiti o con cui vorresti misurarti, ma, salvo casi davvero fortunati, non se ne farà mai niente. Potrei perciò dire che mi piacerebbe per esempio tradurre un maestro assoluto della non-fiction come John McPhee, magari nel monumentale Annals of the Former World, volume – raccolta di cinque libri, e premio Pulitzer – in cui passa in rassegna la geologia dell’intero Nordamerica. Ma è un po’ come sognare a cinquant’anni di correre una seconda maratona, dopo che dei problemi fisici ti hanno costretto ad abbandonare il podismo amatoriale proprio quando cominciavi a prenderci gusto: non impossibile ma, insomma, abbastanza improbabile.

Un desiderio probabilmente più realizzabile è tradurre un autore o un’autrice in ascesa, indifferentemente di fiction e non-fiction, giovane o late-bloomer che sia, da noi al momento ancora poco noto/a, diventandone la voce italiana per diversi libri. Questo, nella speranza che al primo cambio di editore o editor tu non ne perda le tracce perché non nelle grazie di tale editore o editor, ovvero confidando che qualcuno abbia premura di contattarti per accertarsi se sei disponibile a tradurre anche le nuove uscite.

5. Cosa ti appassiona (ancora) del tuo lavoro, e qual è l’aspetto più faticoso?

Mi appassiona mettermi di nuovo alla prova, testando ogni volta limiti e, se ce sono, punti di forza.

L’aspetto più faticoso è l’incertezza di quel che verrà una volta consegnato. Il dover fare magari i conti con periodi più o meno lunghi di inattività: causa, con il calo delle vendite, la riduzione del numero di libri tradotti, specie i saggi, il mio settore primario di competenza; e, sempre più spesso, la tendenza degli editori a risparmiare sul costo delle traduzioni, affidandosi così a colleghi pronti ad accettare tariffe sotto lo quali tu non sei (più) disposto a scendere.

Capitano altresì casi in cui ti vedi costretto a rifiutare una proposta perché, a fronte di tempi di consegna ristrettissimi, per l’urgenza di andare in stampa, non sei (più) nelle condizioni di lavorare a spron battuto, 10-12 ore al giorno, 6-7 giorni su sette: ritmi che un traduttore agli inizi regge con facilità, ma dopo alcuni anni mettono letteralmente k.o.

Non bastasse la discontinuità lavorativa, a volte c’è pure il dubbio di quando verrai pagato per i lavori già fatti e consegnati: sempre per la famigerata crisi delle vendite e per altre variabili più o meno note, e più o meno messe in conto all’atto di accettare una traduzione.

6. Quando ti arriva un testo da tradurre tu cosa fai? Come organizzi il lavoro?

I traduttori si possono dividere suppergiù in due categorie: quelli che, prima di iniziare a tradurre un libro e anche accettarne la traduzione, devono leggere l’intero testo o buona parte di esso; e quelli che, magari più convinti di sé e del proprio valore, più portati all’avventura e alla scoperta, più fiduciosi nella capacità di discernere dei loro referenti nelle case editrici, o più “di bocca buona”, si dicono disponibili senza indugi a ogni traduzione venga loro proposta, sono in grado di valutare su due piedi di cosa si tratti e quanto tempo potrà richiedere e con quale grado di impegno, quindi, pattuiti i termini del contratto, cominciano subito a tradurre, oppure mettono il libro in lista di attesa, pronti a iniziarlo a tamburo battente appena completate le altre traduzioni in corso, il tutto avendone letto o sfogliato solo poche pagine.

Io appartengo alla prima categoria: prima di accettare un libro e iniziare a tradurre devo leggerlo quasi integralmente, benché questo, vista la mia lentezza nella lettura, porti via almeno un paio di giorni. Ma con i libri non so fare diversamente: ho bisogno di capire se quel particolare testo sia nelle mie corde e in che razza di avventura sto per imbarcarmi.

E a lettura ultimata, se sono emersi dei dubbi sulla validità del testo, sulla mia sintonia con ciò di cui tratta e il tipo di scrittura utilizzata, o sulla mia capacità di tradurlo nei tempi indicati, devo trovare il coraggio di dire prima a me stesso, e poi al mio interlocutore: “No, mi dispiace, temo di non poterlo fare”. Questo, pur sapendo che non accettare una traduzione, anche per motivi fondati, è sempre rischiosissimo: se con il committente non c’è un rapporto più che consolidato, capita di rado che, rifiutato un lavoro, te ne venga proposto subito un altro. E anche con chi conosci da anni, puoi magari rifiutare senza problemi una prima proposta, ma già al secondo “No” rischi grosso: con grande facilità, per diverso tempo non ti contatteranno proprio per nuove traduzioni. È un po’ la regola tacita dell’editoria.

Se un libro incontra invece il mio favore, dopo un rapido calcolo delle cartelle che potranno venir fuori in traduzione, e dopo aver pattuito nel relativo contratto dei termini ragionevoli quanto a tariffe, durata della cessione dei diritti, pagamenti e data o date di consegna (con i saggi, per agevolare i tempi di lavorazione, c’è spesso la richiesta di effettuare consegne parziali, a tranche, e non in un blocco unico, a traduzione ultimata), come organizzo il lavoro?

Purtroppo non sono molto metodico, nel senso che non riesco a seguire una scaletta che preveda ogni giorno tot pagine dell’originale o tot cartelle finali. Conosco naturalmente il ritmo giusto che in teoria mi consentirebbe di arrivare alla data di consegna senza particolari patemi, ma a livello pratico è un altro discorso.

Il problema – o la fortuna, se vogliamo – è avere un’attività parallela al mestiere di traduttore: dai genitori ho ereditato una piccola azienda agricola che, per quanto renda pochissimo, mi sforzo di non lasciare abbandonata e improduttiva. Questo è altresì un modo di assicurarmi una pensione minima per la vecchiaia, non essendo viceversa previsto con le traduzioni editoriali – in regime di diritto d’autore – il versamento di contributi previdenziali obbligatori.

Contemporaneamente, sono chiamato a far fronte alla ridotta indipendenza dei genitori.

Tra una cosa e l’altra, nel corso di ogni traduzione non mancano allora interruzioni e salti di programma. Di conseguenza navigo molto a vista.

In generale, tendo comunque a fare una prima stesura già abbastanza meticolosa e pulita, senza lasciare troppi punti in sospeso. Anche con le citazioni che incontro – e nei saggi sono frequenti – tendo a tradurre tutto da me, rimandando alla fase di revisione la ricerca delle eventuali traduzioni accreditate reperibili nelle biblioteche locali (abitando in provincia, non sempre fornitissime) o in rete.

(A proposito di internet, fino a metà degli anni Zero ero un utilizzatore assiduo di mailing list per traduttori, cui ricorrevo anche per ricerche terminologiche e, appunto, aiuti per le citazioni. Oggi le frequento molto meno. Sono sempre risorse utilissime, ma trovo che portino via troppo tempo e inducano altresì a una certa pigrizia mentale nel traduttore, che per tanti dubbi terminologici e tante ricerche può e dovrebbe invece sbrigarsela da sé, se solo se ne desse il tempo e il modo, come del resto succedeva prima dell’arrivo della rete.)

Ne segue che all’inizio non riesco a sfornare molte cartelle giornaliere: viaggio sulle 4-5, se va bene 6-7. Poi, se non vado incontro a troppe interruzioni (non ultimo, se riesco a limitare l’uso di internet e i richiami dell’attualità), comincio gradualmente ad aumentare il ritmo, fino a stabilizzarmi sulle 10 cartelle al giorno. E quando sono davvero in stato di grazia, e quanto più impermeabile all’esterno, posso arrivare a 12-13; oltre no, se non per un giorno o due, se fortunato.

Completata la traduzione grezza (di tutto il testo o della parte da consegnare subito), viene la fase che mi consuma di più: la revisione. A fronte di una prima stesura già abbastanza curata e pulita, come accennato, si tratta in realtà di una rilettura, ma estremamente lenta e meticolosa, con il testo a fronte (per meglio dire, su un secondo schermo, laterale): leggo ad alta voce, poche righe alla volta, finché, un ritocco qua e uno là, non ricavo la sensazione di poter passare al blocco successivo.

È un processo faticoso e snervante (a volte mi paragono agli ebrei in preghiera davanti al Muro del Pianto, per il movimento della mia testa davanti allo schermo), ma il bello è che a revisione ultimata la traduzione è sostanzialmente a posto: a volte procedo a una seconda, rapidissima rilettura senza testo a fronte, pezzi a voce alta e pezzi no, ma è questione di virgole e piccoli refusi; se invece devo consegnare in tutta fretta, opto per un’unica rilettura, rimandando al controllo delle bozze la ricerca delle minuzie da correggere.

7. Come risolvi le difficoltà presentate da un passo ostico, di difficile comprensione? Ricorri mai ad altre traduzioni o a traduzioni in altre lingue del testo su cui stai lavorando?

Solo un paio di volte mi è capitato di avere a disposizione traduzioni in altre lingue del testo a cui stavo lavorando, ma credo di essermene avvalso giusto per passi davvero di difficile comprensione, preferendo per il resto operare esclusivamente con l’originale. In generale penso che, salvo rari casi, la soluzione a ogni problema di traduzione è già scritta lì, nel testo che abbiamo davanti, senza il bisogno di ricorrere a chissà quali aiuti per pervenire a una versione adeguata dei punti più ostici: occorre solo mettere la mente nelle condizioni di riuscire a leggerla; ovvero, occorre probabilmente lasciar perdere per un po’ quel punto e tornarci in un secondo momento, a mente più fresca, o quando nel cervello, magari impegnato in tutt’altro, si accende all’improvviso un flash e di colpo lampeggia la soluzione a lungo cercata.

8. Tradurre è sempre un po’ tradire? Quali sono gli elementi che fanno la qualità di una traduzione?

Tradurre è un’operazione di “trasporto”: nel senso banale di portare un testo da una lingua e una cultura a un’altra lingua e un’altra cultura; e più ancora nel senso di lavorare su un testo con cura, continuità, dedizione, intensità e anche passione. Se questi elementi ci sono, la buona qualità di una traduzione è quasi automatica; se mancano, la qualità inevitabilmente ne risente.

9. Il lavoro di quale traduttore italiano ti sembra particolarmente apprezzabile e perché?

Per le condizioni in cui lavora la maggioranza dei traduttori italiani – cioè, con tempi in genere molto ridotti, pagamenti non eccezionali e scarse possibilità di stilare piani di lavoro a lungo termine, con spazio anche per periodi di letture approfondite, occasioni di aggiornamento e confronto dal vivo con i colleghi, in Italia e magari all’estero – direi che l’opera di tutti loro è apprezzabile.

Certo, nella massa di buone traduzioni un occhio attento coglie anche quelle che hanno indiscutibilmente una marcia in più, dietro cui si possono scorgere percorsi scolastici impeccabili, letture vastissime (di testi italiani, più ancora che stranieri), soggiorni prolungati all’estero con un’immersione nella lingua viva da cui si traduce, frequentazioni culturali importanti (su carta, video, online e più ancora di persona), una curiosità accesa per il bello e il meglio, una acuta intelligenza e, perché no?, una spiccata inventiva e creatività in proprio.

Ma non mi sento di fare nomi di singoli traduttori, anche perché in questi casi si finisce quasi sempre per citare qualcuno cui ci sentiamo più vicini per affinità, simpatia o conoscenza diretta, e non chi oggettivamente può essere un gradino sopra tutti gli altri.

Inoltre, per stilare delle graduatorie bisognerebbe aver letto tantissime traduzioni; e io devo ammettere che non ne leggo molte, optando di più per testi in originale e libri di autori italiani.

10. Quale dovrebbe essere l’atteggiamento più corretto da parte di un editore? Quali diritti contrattuali dovrebbero essere perfezionati?

Editore e traduttore dovrebbero stare dalla stessa parte della barricata, stabilendo così un rapporto di collaborazione profittevole per entrambi, basato quanto più sulla fiducia e il rispetto reciproci. Molto spesso, invece, se non è un rapporto di ostilità dichiarata poco ci manca, e la fiducia reciproca è una valuta molto in ribasso. L’uno e l’altro possono darsi molto a vicenda, avendo competenze diverse ma capaci di integrarsi, portando così alla produzione di un prodotto non solo di buona qualità ma anche ben vendibile. Dovrebbero perciò sedersi a un tavolo, reale o metaforico che sia, e ragionare su come meglio venirsi incontro, nel lungo termine più ancora che nel breve. Pensare invece di avere ciascuno tutte le ragioni dalla propria parte, e agire di conseguenza, alla fine danneggia tutti.

Sui diritti contrattuali da perfezionare, più che le royalties sulle vendite (che suppergiù avrebbero effetto solo sui libri che riescono a superare le diecimila copie, e che alla prova dei fatti sono assai pochi) direi che un tasto su cui battere è la riduzione del periodo per cui si cedono i diritti di traduzione: oggi vent’anni, se non concordato diversamente. Portare tale durata a dieci anni o anche meno (sette, cinque, dipende), se il libro non vende, e dunque non verrà nemmeno ristampato, non cambia nulla; se invece ha un discreto successo, ci sono forse i margini perché anche il traduttore ne ricavi un piccolo o grande beneficio supplementare, al momento di rinnovare il contratto di cessione dei diritti.

11. Poiché all’editoria si arriva attraverso percorsi diversi, in base alla tua esperienza quale potrebbe essere una buona formazione per un traduttore?

In base alla mia esperienza, che è forse quella di uno degli ultimi autodidatti del mestiere, direi che oggi chi aspira a fare il traduttore ha moltissime risorse disponibili, anche in termini di percorsi formativi rigorosi e approfonditi; allo stesso tempo rischia però di infilarsi in una “macchina delle illusioni” ben più di chi un tempo arrivava alla traduzione anche per vie traverse.

Dovendo indicare una buona formazione per un traduttore, mi limiterei perciò a dire che è necessario innanzitutto un bagaglio amplissimo di letture, a partire dalla propria lingua, accanto a una spiccata curiosità e recettività e una buona adattabilità alle situazioni più varie, nonché una discreta propensione alla scrittura in proprio. Se queste basi ci sono, troverà sicuramente modo di mettere a fuoco il percorso – non rettilineo né immediato, va da sé – che un giorno lo porterà a fare concretamente il traduttore.

12. Cosa consigli a un giovane che vuole intraprendere questo mestiere?

Maturare una buona cultura generale; leggere; guardarsi intorno; ascoltare musica; vedere film; andare a teatro; seguire eventi letterari; coltivare una curiosità a tutto tondo; se ne ha le possibilità, viaggiare e vivere all’estero; scrivere, fissando i propri pensieri; individuare un settore di particolare interesse; cominciare a tradurre qualcosa per puro diletto e, ricavandone l’impressione che non è affatto male, farlo leggere in giro; quindi insistere e insistere, tra colpi di fortuna, intoppi ricorrenti, deviazioni e incidenti di percorso, fino a trovare la sua personale via delle traduzioni, se a queste vuole dedicare alcune delle sue energie migliori.

 

© Nazzareno Mataldi (testo originale agosto 2015; ultima modifica 22 aprile 2022)