Un percorso in salita
(18 dicembre 2005)
Nell’estate 1993, mentre facevo il servizio civile, ci fu il mio secondo approccio ufficiale alla traduzione. Committente: di nuovo l’amata «Lettera internazionale», con tre pezzi che in vario modo avevano per tema la guerra (era la seconda fase dei devastanti conflitti etnici nella ex Jugoslavia, che, dopo aver investito le enclave serbe in Croazia, erano esplosi in tutta la loro violenza nella Bosnia Erzegovina). Due – il saggio breve Il linguaggio della guerra, dello studioso serbo Ranko Bugarski, e il racconto La guerra può ricominciare, dello scrittore sudafricano Michael Du Plessis – sarebbero stati pubblicati sul numero 37, luglio settembre 1993, di «Lettera»; il terzo – il saggio breve I dubbi di Andric, dello scrittore e sceneggiatore Vuk Krnjevic – per qualche motivo rimase fuori. Dodici anni dopo è proprio su quest’ultimo pezzo (a quel che so, mai pubblicato in italiano) che mi piace tornare: ci sono infatti alcuni passi che mi pare meritino.
Nel caso di Ivo Andric la riedizione delle opere complete non è un omaggio alla sua straordinaria impresa letteraria, ma risponde al bisogno autentico di rileggere, per capirlo e appropriarsene, questo prezioso lascito culturale che sonda e risolve il destino umano. […] Dopo Znakovi pored puta (Segni al margine della strada), ogni frammento, ogni nota, ogni commento e ogni suggestione offrono elementi per un’interpretazione nuova degli scritti pubblicati in vita, e consentono altresì il gioco intellettuale di ricostruire le parti mancanti della sua grande opera. […]
È nel frammentario, nell’incompiuto che affiora il dubbio che tutta contesta, persino l’opera compiuta e rifinita; è l’incompiuto che suggerisce la possibilità di riscoprire i percorsi dei destini individuali e collettivi. […]
Nel 1956 Andric scriveva: «Chi legga tutti gli scritti di un autore troverà che costituiscono un blocco omogeneo, nonostante le contraddizioni e i salti che l’opera di uno scrittore contiene e deve contenere. Il lettore procede di volume in volume come se camminasse lungo una bella strada fiancheggiata da case a schiera, e tutto appare come un’unità più o meno strutturata. Questo lettore si ferma a un certo punto dell’opera, la scorre cronologicamente all’indietro e vede i vari lavori come un tutt’uno e nella loro continuità, caratteristiche che non possono aver posseduto nel momento in cui furono scritti, uno a uno, lentamente e con fatica, nei lunghi e turbolenti periodi della vita di un autore. Invece lo scrittore, se non in preda al classico abbaglio, riconosce nel suo lavoro un difficile percorso in salita, un lungo tracciato, contorto e sconnesso, sul quale si affacciano edifici isolati e parchi, lungo cui ci sono lotti ancora vuoti, cantieri abbandonati e persino case bruciate. Egli riconosce ogni fallimento, tutti i parti dell’immaginazione, tutti i punti controversi e le discontinuità».
L’autocoscienza di Andric ha sempre tenuto in conto l’irrealizzato, i «lotti vuoti», i «cantieri abbandonati», persino le «case bruciate». Questi spazi lasciati inutilizzati, non colmati, non intervengono solo a livello estetico, e sono fondamentali per l’interpretazione del destino umano e di quelle congetture sul destino, subconscie e metafisiche, che si dovrebbero ricercare nelle giacenze del passato tanto quanto nel presente. In un passo di Znakovi pored puta, Andric dice: «Ho sempre voluto descrivere quello che vedo ed esprimere quello che provo». Qui, il verbo vedere va inteso in rapporto al destino, cosa che nel nostro linguaggio presuppone sia un giudizio di valore che l’atto di presagire. Vedere e prevedere si identificano. Nell’impellente bisogno che Andric ha di descrivere ciò che vede e intuisce e di esprimere ciò che prova, si rinviene il tipico atteggiamento cartesiano dello spirito europeo che tende a esprimere solo quanto percepito e a perseguire la ricerca del solubile. Di qui le case bruciate, come scrive Andric, accanto ai cantieri abbandonati.
Da questa ricerca Andric ha tratto la forza per continuare a sperare nella sopravvivenza anche nei momenti peggiori e più disperati; quindi, la sua visione del destino umano, benché dominata dall’idea del male e della distruzione, lascia sempre adito a possibilità di palingenesi. Le quali, seppur incerte e lontane, permangono a garanzia dell’indistruttibilità umana. […]