Howard Baker
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Wake up to quantum computer
(«New Scientist», 15 marzo 1997)
Imagine that you could be in many places at once. You might send one self to work, another out to run errands, and a third to the library for an afternoon of serious study. You could even commit murder and get away with it.
This is just a spot of good clean fun for us, but in the strange world of quantum mechanics parallel existence is quite common. Electrons do it all the time. And 12 years ago, physicists realised that quantum coexistence could be put to good use – to build a generation of ultrafast computers. A quantum computer could split into millions of identical copies, unleashing immense parallel computing power that would make a tortoise of even the fastest of today’s supercomputers.
That, at least, is the theory. But no one has yet built a useful quantum computer. Why? Because quantum coexistence is not only strange, it’s also exceedingly fragile. A single wayward electron can disrupt the branched existence of a quantum object and cause it to collapse. As a result, a quantum computer has to be isolated from the rest of the Universe so that its natural quantum dynamics can unfold.
Experimenters have thrown an arsenal at the problem, using elaborate schemes of electric and magnetic fields to trap single atoms in ultra-powerful vacuum chambers, and precise lasers to cool the atoms to temperatures just a thousandth of a degree above absolute zero. Impressive work, no doubt. Still, these fantastic efforts haven’t yet produced a functioning quantum computer that can do even junior school arithmetic.
But it seems that the crucial device that can make quantum computing work has literally been under experimenters noses all along. In the past two months, two research groups from the US have discovered how to do quantum computing in an ordinary cup of coffee – or pint of lager, if you must. Scuttle your expensive apparatus – in 10 years this astonishing new approach could put a functioning quantum computer in every school chemistry laboratory.
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Il computer nel caffè
(«Internazionale», 13 giugno 1997, p. 19)
Immaginate di poter stare in diversi luoghi contemporaneamente. Potreste mandare un vostro io al lavoro, un secondo io a fare la spesa, e un terzo io in biblioteca per un pomeriggio di studio. Potreste anche commettere un omicidio e farla franca.
Per noi è solo un sogno divertente, ma nello strano mondo della meccanica quantistica l’esistenza parallela è relativamente comune. Gli elettroni lo fanno sempre. E dodici anni fa, i fisici si resero conto che potevano fare buon uso della coesistenza quantistica per costruire una nuova generazione di computer ultrarapidi. Un computer quantistico potrebbe dividersi in milioni di copie identiche, dotandosi di una tale potenza di calcolo parallelo da far sembrare anche i più veloci computer di oggi delle tartarughe.
Questo almeno in teoria. Ancora nessuno ha mai costruito un utile computer quantistico. Perché? Perché la coesistenza quantistica non solo è strana ma è anche estremamente fragile. Un singolo capriccioso elettrone può dissestare la ramificata esistenza di un oggetto quantistico e provocarne il collasso. Un computer quantistico andrebbe quindi isolato dal resto dell’universo in modo che la sua dinamica quantistica naturale possa rivelarsi.
I ricercatori le hanno provate tutte per aggirare il problema, usando schemi elaborati di campi elettrici e magnetici per confinare singoli atomi in camere a vuoto ultraspinto, e laser di precisione per raffreddare gli atomi a temperature appena un millesimo di grado sopra lo zero assoluto. Lavoro impressionante, senza dubbio. Tuttavia, questi sforzi fantastici non hanno ancora prodotto una macchina quantistica funzionante e capace di eseguire se non altro i più elementari calcoli aritmetici.
Si dà però forse il caso che il dispositivo cruciale in grado di consentire l’elaborazione quantistica è stato durante tutto questo tempo letteralmente sotto il naso dei ricercatori. Negli ultimi due mesi, due gruppi di ricerca statunitensi hanno scoperto come eseguire un’elaborazione quantistica in una normale tazzina di caffè – o in una pinta di birra, all’occorrenza. Non servono costosi macchinari: in una decina di anni questo nuovo sorprendente approccio potrebbe permettere a ogni laboratorio di chimica di avere un suo computer quantistico perfettamente funzionante.
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Cosmic beakers
(«New Scientist», 21 settembre 1996, p. 46)
It is not every day that you watch the Universe being born. But five years ago, researchers in the US published pictures of the early stages of the big bang, just 10-34 seconds or so after it all started. Now others are getting in on the act, and in July two international teams of physicists described their own privileged views of the Universe’s birth pangs.
Their pictures are not the product of fancy computer trickery. The universes are tangible enough, but scaled down: they sit in beakers on a laboratory bench top. Strange though it may seem, there are some things you can find out about unimaginably early events in the birth of the Universe by peering into a bucket of liquid. Mind you, the liquids are far from ordinary. Some experiments used “superfluid helium”, a bizarre liquid that exists at temperatures just a whisker above absolute zero. Superfluid helium does weird things, like climbing up the walls of containers and escaping. Others used liquid crystals, molecules that exists in a strange state that is partially between ordinary liquids and solids.
So what have these tubs to do with the behaviour of the early Universe? It all hinges on the baffling question of why galaxies are distributed so unevenly across the sky, clustering together in filaments separated by giants voids: Back in the 1970s, Thomas Kibble, a theoretical physicist at Imperial College, London, suggested a possible explanation. Perhaps, he said, when matters first condensed shortly after the big bang it gathered around long, thin “cracks” in the fabric of space-time, known rather whimsically as cosmic strings.
Theorists believe that cosmic strings are the leftovers from a process that separated the four fundamental forces of nature — gravity, the electromagnetic force and the strong and weak nuclear forces — that we see today. In the beginning, within the first split second after the big bang, there was simply a single “primeval” force. Then the individual forces began budding off in a series of abrupt transformations. Gravity separated first, followed between 10-35 and 10-34 seconds after the big bang by the strong force.
It was during this second defection, in a Universe about a billion billion times the temperature of the inside of a star and much, much smaller than a single hydrogen atom, that cosmic strings may have been created.
Frozen into the fabric of the Universe while it was still unimaginably small, the strings would now be stretched out into a vast, ethereal web across billions of light years. But twenty years after Kibble suggested that cosmic strings might be the seeds of the large-scale structure of the Universe, they remain just an idea. No one knows if it is even possible to see them directly in deep space. How, then, can we know if Kibble’s idea holds water?
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Il cosmo in laboratorio
(«Internazionale», 4 ottobre 1996, p. 35)
Non è cosa di tutti i giorni assistere alla nascita dell’universo. Eppure, cinque anni fa, dei ricercatori statunitensi pubblicarono un’istantanea delle primissime fasi di vita dell’universo, ad appena 10-34 secondi dall’inizio di tutto. Ora è la volta di altri ricercatori: a luglio due équipe internazionali di fisici hanno descritto i travagli del parto dell’universo dal loro privilegiato punto di vista.
Le immagini non sono il prodotto di elaborate ricostruzioni al computer. Gli universi sono abbastanza tangibili, ma in scala ridotta: trovano posto dentro dei becher su un banco di laboratorio. Per quanto possa sembrare strano, ci sono informazioni, sugli eventi successi a un tempo impensabilmente prossimo alla nascita dell’universo, che si possono dedurre semplicemente osservando quanto accade in un recipiente contenente del liquido. Ovviamente, non si tratta certo di liquidi ordinari. In alcuni esperimenti si è usato dell’elio “superfluido”, un liquido dal comportamento bizzarro che esiste a temperature appena sopra lo zero assoluto. L’elio superfluido fa cose strane, come ad esempio risalire le pareti del contenitore e fuoriuscirne. Altri esperimenti hanno fatto ricorso ai cristalli liquidi, molecole in uno stato intermedio tra il solido e il liquido.
Cosa c’entrano questi liquidi con il comportamento del primo universo? Tutto ruota intorno alla spinosa questione del perché le galassie sono distribuite nel cosmo in modo così irregolare, addensate in ammassi filamentosi separati da giganteschi spazi vuoti. Negli anni Settanta Thomas Kibble, fisico teorico dell’Imperial College di Londra, suggerì una possibile spiegazione. Forse, disse, la materia nella sua prima fase di vita subito dopo il big bang si è addensata intorno a lunghe, sottili “crepe” nella struttura dello spazio-tempo, note con il nome piuttosto stravagante di stringhe cosmiche.
I teorici ritengono che le stringhe cosmiche siano i residui del processo che separò le quattro forze fondamentali della natura da noi oggi osservate: la gravitazionale, l’elettromagnetica, la nucleare forte e la nucleare debole. In origine, nella primissima frazione di secondo dopo il big bang, c’era un’unica forza “primordiale”. Poi cominciarono a emergere le singole forze in una serie di bruschi processi di trasformazione. La prima a separarsi fu la forza di gravità, seguita tra 10-35 e 10-34 secondi dopo il big bang dalla nucleare forte.
Fu durante questa seconda defezione, in un universo alla temperatura circa un miliardo di miliardi di volte superiore a quella all’interno di una stella e molto, molto più piccolo di un atomo di idrogeno, che si sono forse create le stringhe cosmiche.
Congelate nella struttura dell’universo finché questo era ancora inconcepibilmente piccolo, le stringhe si sarebbero ora dilatate a formare una ragnatela celeste che si estende per miliardi di anni luce. Ma a vent’anni di distanza dalla teoria di Kibble che vede le stringhe cosmiche all’origine della struttura su larga scala dell’universo, le stringhe cosmiche rimangono solo un’ipotesi. Nessuno sa dire se, almeno, sia possibile osservarle direttamente nelle profondità dello spazio. Ma come facciamo allora a sapere se l’idea di Kibble regga oppure no?
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Paul de Brem
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L’Univers toujours plus vite !
(«Eurêka», marzo 1999)
Dans le grand bestiaire des objects cèlestes, à coté des trous noirs ou des comètes, il en est qui boulversent aujourd’hui nos connaissances : les supernovæ. Des étoiles de forte masse dont l’eclat augmente de façon considerable lorsqu’en fin de vie elles explosent, jusqu’à atteindre plusieurs milliers de fois leur luminosité initiale. Il s’agit d’un événement rare : en moyenne, il s’en produit une par trois siècles dans une galaxie. Voici qu’en les observant, une équipe d’astrophysiciens principalement américains, comprenant également deux chercheurs de l’ESO (Observatoire européen austral), semble avoir réussi à répondre à l’une des questions fondamentales de la cosmologie contemporaine.
L’Univers, dont on sait depuis les résultats d’Edwin Hubble en 1929 qu’il est en expansion, se dilate-t-il de moins en moins vite ou de plus en plus vite ? En d’autres termes, son expansion décélère-t-elle ? Jusqu’à aujourd’hui, les astrophysiciens penchaient clairement pour la première solution, mais sans preuve réelle. Selon eux, il y avait toutes les chances pour que l’expansion soit frenée par la force gravitationnelle, dont on sait qu’elle attire les corps entre eux. Au point qu’un jour, une fois passée la phase de dilatation actuelle, l’Univers pourrait se recontracter sur lui-même : apres le Big-bang, le ” Big-crunch “. Qu’on se rassure, un tel événement ne pourrait se produire que dans quelques dizaines de milliards d’années. Et il semble bien, d’après les nouveaux résultats, que l’Univers doive de toute façon echapper à ce sort funeste.
L’équipe s’est intéressée à un certain type de supernovae – dites de type Ia – parce qu’on est aujourd’hui capable de mesurer leur distance avec une précision remarquable d’environ 12 %. Ainsi les cosmologists ont-ils été en mesure de choisir les supernovæ les plus lointaines, dans le lumière desquelles on peut lire la vitesse de l’expansion de l’Univers dans des temps très reculés.
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La corsa del cosmo
(«Internazionale», 26 marzo 1999, p. 60)
Nel grande bestiario degli oggetti celesti, a fianco dei buchi neri o delle comete, ci sono dei corpi che stanno sconvolgendo le nostre conoscenze: le supernove. Sono stelle di grande massa il cui splendore aumenta in modo considerevole quando alla fine della loro vita esplodono e sprigionano un lampo di luce migliaia di volte superiore alla loro luminosità iniziale. È un evento raro: in una galassia si verifica in media una volta ogni trecento anni. Ma osservandole, un’équipe di astrofisici statunitensi e dell’Osservatorio europeo australe (Eso) sembra essere riuscita a rispondere a una delle domande fondamentali della cosmologia contemporanea.
L’espansione dell’universo – provata nel 1929 da Edwin Hubble – decelera o accelera? Finora gli astrofisici propendevano per la prima soluzione, ma senza averne la prova reale. Secondo loro c’erano tutte le condizioni per cui l’espansione dovesse essere frenata dalla forza gravitazionale, che attrae tra loro i corpi. Al punto che un giorno, una volta superata la fase di dilatazione attuale, l’universo si sarebbe contratto su se stesso, finendo in un “big crunch”, un big bang alla rovescia. Un evento che non si sarebbe verificato prima di qualche decina di miliardi di anni. In base alle nuove scoperte, però, sembra che l’universo debba sfuggire a questa sorte funesta.
I ricercatori si sono interessati a un tipo particolare di supernove, chiamate Ia, di cui è adesso possibile misurare la distanza con una precisione di circa il 12 per cento. Così i cosmologi sono stati in grado di selezionare le supernove più lontane, dalla cui luce si può dedurre la velocità di espansione dell’universo in tempi lontanissimi.
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Paul Davies
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The day time began
(«New Scientist», 27 aprile 1996, p. 31)
Can science explain how the Universe began?
Religious people tend to see the claim as a move to finally abolish God the Creator. Atheist are equally alarmed, because the notion looks suspiciously like the creation, ex nihilo, of Christianity. The general sense of indignation was well expressed by writer Ray Weldon. “Who cares about half a second after the big bang”, she railed in a scathing newspaper attack on scientific cosmology. “What about the half a second before?”. What indeed. The simple answer is that, in the standard picture of the cosmic origin, there was no such moment as “half a second before”.
To see why, we need to examine this standard picture in more details. The first point to address is why anyone believes the Universe began at a finite moment in time. Ho do we know that it hasn’t simply been around for ever? Most cosmologists reject this alternative because of the severe problem of the second law of the thermodinamics. Applied to the Universe as a whole, this law states that the cosmos is on a one-way slide towards a state of maximum disorder, or entropy. Irreversible changes, such as the gradual consumption of fuel by the Sun and stars, ensure that the Universe must eventually “run down”and exhaust its supplies of useful energy. It follows that the Universe cannot have been drawing on this finite stock of useful energy for all eternity.
Direct evidence for a cosmic origin in a big bang comes from three observations. The first, and most direct, is that the Universe is still expanding today. The second is the existence of a pervasive heat radiation that is neatly explained as the fading afterglow of the primeval fire that accompanied the big bang. The third strand of evidence is the relative abundances of the chemical elements, which can be correctly accounted for in terms of nuclear processes in the hot dense phase that followed the big bang.
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Il giorno che cominciò il tempo
(«Internazionale», 12 luglio 1996, p. 21)
La scienza è in grado di spiegare l’origine dell’universo?
I credenti tendono a vedere nelle teorie scientifiche un tentativo di eliminare una volta per tutte dalla scena la figura di un Dio creatore. Anche gli atei sono allarmati perché la nozione di un universo che nasce dal nulla desta sospetto al pari dell’idea di una creazione ex nihilo sostenuta dal cristianesimo. Il clima generale d’indignazione è stato bene espresso dalla scrittrice Ray Weldon. “C’è chi si occupa tanto del mezzo secondo dopo il big bang”, lamentò nel 1991 in un articolo contro la cosmologia scientifica. “E che ne è del mezzo secondo prima?”. Già! Solo va detto che nell’immagine standard dell’origine del cosmo non esiste un momento come il “mezzo secondo prima”.
Per capire perché, dobbiamo considerare più in dettaglio quest’immagine. Per prima cosa c’è da dire perché tutti credono che l’universo sia cominciato in un preciso momento temporale. Come facciamo a sapere che semplicemente non esiste da sempre? La maggior parte dei cosmologi rifiuta questa possibilità perché contraddirebbe la seconda legge della termodinamica. Applicata all’universo nella sua interezza, questa legge afferma che il cosmo procede irreversibilmente verso uno stato di massimo disordine, di massima entropia. I cambiamenti irreversibili, come il graduale consumo del combustibile nucleare del sole e delle stelle, assicurano che l’universo deve alla fine “affievolirsi” ed esaurire le scorte di energia utile. Quindi non è possibile che l’universo stia attingendo a questa fonte finita di energia utile da un’eternità.
Che il cosmo abbia avuto origine da un big bang si può dedurre direttamente da tre prove sperimentali. La prima, e più diretta, è che l’universo è ancora oggi in espansione. La seconda è l’esistenza di una radiazione cosmica di fondo, ultimo bagliore evanescente del fuoco primordiale che accompagnò il big bang. Terzo fattore probante sono le abbondanze relative degli elementi chimici, di cui si può dar conto solo ipotizzando dei processi di sintesi nucleare nelle primissime fasi seguite al big bang, contraddistinte da temperature e densità estreme.
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Timothy Ferris
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Weirdness Makes Sense
(«The New York Times Magazine», 29 settembre 1996, p. 143)
If the next Einstein were born today, what might he or she be doing in the year 2022, having reached the age, 26, at which Einstein formulated the theory of relativity?
My suggestion would be – solving the problem of quantum weirdness. The term is scientific slang. It stands for a conundrum, more properly known as the “quantum observership” or “quantum measurement” problem, that has defied some of our century’s strongest minds.
Quantum physics is a famously strange realm where matter, energy and knowledge are spooned out in indivisible units, the quanta – as if the world were a pub where you could quaff a pint of beer, or no beer, but never a half pint. In quantum physics we have learned to accept such unlikelihoods as “quantum leaps”, in which particles vanish from one place and reappear in another – instantly. (Raymond Chiao of the University of California at Berkeley has recently measured photons, the carriers of light, quantum-leaping at velocities that would amount to twice the speed of light if they crossed the intervening space, which they don’t). But quantum physics itself in not the problem. It remains a highly successful branch of science that promises to cruise with flying colours through the centennial, in 2000, of Max Planck’s discovery of the quantum principle. Weirdness arises when we try to reconcile some of the oddities of the quantum world with the dictates of common sense.
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Il senso di un mondo bizzarro
(«Indice Internazionale», 2/97, p. 150)
Mettiamo che oggi nasca l’Einstein del futuro. Domanda: nel 2022, quando avrà ventisei anni, cioè l’età a cui Einstein formulò la teoria della relatività, cosa potrebbe star facendo?
Secondo me potrebbe star risolvendo il problema che in gergo scientifico è detto della quantum weirdness (le bizzarrie quantistiche). Si tratta di un rompicapo, più esattamente noto come problema dell'”osservatore in meccanica quantistica” o della “misurazione quantistica”, con cui si sono cimentate alcune delle più grandi menti del nostro secolo.
In fisica quantistica, si sa, accadono cose strane. La materia, l’energia e l’informazione sono organizzate in unità discrete, indivisibili: i quanti. È come se il mondo fosse un pub dove la birra si serve solo a pinte intere, e non sia mai possibile ordinare solo una mezza pinta. In fisica quantistica abbiamo imparato ad accettare stranezze come i “salti quantici”, situazioni in cui delle particelle scompaiono da un posto e riappaiono in un altro, istantaneamente. (Raymond Chiao, dell’Università della California a Berkeley, ha recentemente effettuato misurazioni sui salti quantici dei fotoni, le particelle elementari di cui si compone la luce. L’esperimento, se interpretato in un contesto classico, condurrebbe al paradosso di fotoni che attraversano una barriera a una velocità doppia di quella della luce). La fisica quantistica in sé non è comunque in discussione, resta una delle branche della scienza di maggior successo, e promette di arrivare a vele spiegate al 2000, il centenario della formulazione da parte di Max Planck del principio quantistico. I problemi sorgono quando si cerca di riconciliare alcune delle stranezze del mondo quantistico con i dettami del senso comune.
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Sheldon Glashow
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Blessed is the weak
(«New Scientist», 11 ottobre 1997, p. 28)
Four fundamental forces. It is an old refrain in physics. Gravity and electromagnetism, along with the “strong” and “weak” nuclear forces, seem to account for all that happens in the world. Gravity holds the stars together and keeps our feet on the ground. The electromagnetic force binds electrons into atoms and drives the complex web of chemical reactions that make our bodies work. And the strong force glues neutrons and protons together into atomic nuclei, and stands behind the life-giving energy of the Sun. It’s a nice picture, satisfying and complete, and with each year, physicists come a little closer to wrapping it all up in one ultimate unified theory.
Wait a minute. What about the weak force? Stars, atoms and nuclei are held together by the other three forces. But where does the weak force come in? Is it really necessary? And would the world be any different without it?
It was 100 years ago when the French physicist Henri Becquerel stumbled over the effects of the weak force when he discovered radioactivity. Since then the weak force has dwelt in relative obscurity, overshadowed by its three more forthcoming sisters. We physicists now have a detailed theory that explains it, and we can calculate how it works. But that’s mathematics. What does the weak force really do?
Although the weak interaction only shows its face in the quantum world, it isn’t really obscure, and it affects all of us profoundly. To get to grips with it, you only need to forget about “weak” for a few moments and focus instead on the idea of “force”. For it is the odd but beautiful shape into which quantum theory twists that familiar concept that the nature of the weak force is to be found.
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I misteri della forza debole
(«Internazionale», 7 novembre 1997, p. 30)
Quattro forze fondamentali. In fisica è una cosa risaputa. La gravità e l’elettromagnetismo, insieme alle interazioni nucleari forte e debole, sembrano spiegare tutto quanto avviene nell’Universo. La gravità tiene assieme le stelle e ci fa stare con i piedi incollati al terreno. La forza elettromagnetica vincola gli elettroni negli atomi e presiede alla complessa ragnatela di reazioni chimiche che fanno funzionare i nostri corpi. E l’interazione nucleare forte incolla neutroni e protoni a formare i nuclei atomici, e sta dietro all’energia che si sprigiona dal Sole. È un bel quadro, soddisfacente e completo, e ogni anno che passa i fisici si avvicinano sempre di più all’obiettivo finale di una grande teoria unificata.
Un momento. E l’interazione nucleare debole? Stelle, atomi e nuclei sono tenuti assieme dalle altre tre forze. Dov’è che interviene allora l’interazione debole? È davvero necessaria? E senza di essa il mondo sarebbe diverso?
La storia dell’interazione debole inizia cento anni fa, quando il fisico francese Henry Becquerel s’imbatté negli effetti della radioattività. Da allora l’interazione debole è rimasta un po’ nell’oscurità. Noi fisici abbiamo oggi una teoria dettagliata che la spiega, e possiamo calcolare come funziona. Ma questa è matematica. Di concreto l’interazione debole che fa?
Sebbene mostri il suo volto solo nel mondo quantistico, l’interazione debole non è veramente oscura; la verità, anzi, è che ci influenza profondamente. Bisogna dimenticare per un momento l’attributo “debole” e concentrarsi sulla nozione di “forza”. Perché è nel modo, strano ma bello, con cui la teoria quantistica rilegge questo concetto familiare che va ricercata la natura dell’interazione debole.
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Sylvie Rouat
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Deep Space, la flotille de l’espace
(«Sciences et Avenir», settembre 1998, p. 102)
Le 15 octobre, tandis que s’élèvea dans le ciel de Floride une modeste fusée Delta avec à son bord la petite sonde Deep Space 1, une nouvelle ère de l’exploration spatiale s’ouvrira pour la Nasa. Pour le siècle prochain, l’agence spatiale américaine projette en effet de constituer une flotille de mini-sondes scientifiques qu’elle dépêchera dans le système solaire, voire la Galaxie, au rythme de 10 à 15 lancements par an.
Aucun événement astronomique n’échappera à ces émissaires robotisés. Avant de concrétiser ce rêve, la Nasa doit mettre au point une nouvelle génération de vaisseaux interplanétaires peu coûteux, très spécialisés, et ultrarapides.
Deep Space 1 est le prototype de ces engins, sorte d’antithèse de Cassini, montre scientifique polyvalent, gros comme un bus, en route vers Saturne. Pas plus grande qu’un réfrigérateur et dix fois plus légère que son aînée, Deep Space 1 n’aura coûté que 141,1 millions de dollars, contre 2,7 milliards pour Cassini (respectivements 776 millions e 14,8 milliards de francs).
… Le vrai défi de la sonde, c’est son système de propulsion ionique, digne d’un roman de sciece-fiction. Jusq’à présent, fusées et satellites recouraient à la propulsion chimique, héritière des feux d’artifice. Trop lentes, grandes consummatrices de carburant, ces fusées n’ouvriront jamais l’accès rapide aux autres planètes du système solaire et ancore moins aux étoiles de la Galaxie. La propulsion ionique, que requiert 10 fois moins de carburant embarqué, sera bien plus efficace.
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Alla conquista del cosmo
(«Internazionale», 9 ottobre 1998, p. 60)
Il 15 ottobre, quando nel cielo della Florida si leverà un razzo Delta con a bordo la piccola sonda Deep Space 1, per la Nasa si aprirà una nuova era dell’esplorazione spaziale. Nel prossimo secolo l’agenzia spaziale statunitense progetta infatti di costituire una flottiglia di minisonde scientifiche che invierà nel sistema solare, e forse anche nella nostra galassia, al ritmo di 10-15 lanci l’anno.
Nessun evento astronomico sfuggirà a questi emissari robotizzati. Prima di concretizzare questo sogno la Nasa dovrà però mettere a punto una nuova generazione di astronavi interplanetarie poco costose, molto specializzate e superveloci.
Deep Space 1 è il prototipo di questi veicoli, una sorta di antitesi della sonda Cassini, mostro scientifico polivalente, grande come un autobus, attualmente in rotta verso Saturno. Non più grande di un frigorifero e dieci volte più leggera della sorella maggiore, Deep Space 1 è costata solo 141,1 milioni di dollari contro i 2,7 miliardi di dollari della Cassini (rispettivamente 230 e 4.400 miliardi di lire).
… La vera sfida rappresentata dalla sonda è il suo sistema di propulsione ionica, degno di un ro-manzo di fantascienza. Finora razzi e satelliti ricorrevano alla propulsione chimica, erede dei fuochi d’artificio. Troppo lenti e grandi consumatori di carburante, questi razzi non apriranno mai una via rapida all’esplorazione di altri pianeti del sistema solare e ancor meno delle stelle della nostra galas-sia. La propulsione ionica, che richiede una quantità di carburante a bordo dieci volte inferiore, sarà molto più efficace.
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Nancy Touchette
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You must remember this
(«New Scientist», 6 luglio 1996, p. 33)
Aplysia. Sea snail. They are not quite what you’d expect. They are big – about three times the size of a garden snail – fat, and ugly, and looking at them you wonder what on earth they would possibly need to remember. Yet Eric Kandel at Columbia University in New York has made a career of learning how sea snails learn and how they remember what they have learnt.
For decades, neuroscience has wrestled with the problem of how the brain converts a short-term memory – that is one that lasts a few minutes – into one that lasts a lifetime. Now Kandel, one of the most celebrated and controversial figure in that arena, thinks that his team’s work, in combination with some key experiments from other laboratories, is within a hair’s breadth of finding the answer. Those findings, Kandel says, mean that a new type of memory pill is just around the corner.
At the heart of his vision are two proteins – CREB1 and CREB2. According to Kandel, our ability to store information over the long-term depends on the relative amounts of the two proteins that are produced in the brain. Taking their cue from some of Kandel’s early findings in sea snails, other researchers have shown that versions of CREB1 and CREB2 are vital for memory in flies and, even more significantly, mice. That suggests that if Kandel’s hypothesis that the CREB proteins make up a sort master memory switch, is correct, it is also likely holds true for other mammals, including humans.
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La memoria delle lumache
(«Internazionale», 27 settembre 1996, p. 6)
Aplisie. Lumache di mare. Non sono proprio come ve le aspettereste. Sono grandi – circa tre volte la dimensione delle comuni lumache, di quelle che si trovano in giardino – brutte e viscide; guardandole ci si chiede cosa diavolo potrebbero aver bisogno di ricordare. Eppure, Eric Kandel, della Columbia University di New York, ha studiato per tutta la vita il modo in cui le lumache imparano e come poi ricordano ciò che hanno imparato.
Per decenni si è discusso su come il cervello converta una memoria a breve termine – della durata di alcuni minuti – in una permanente. Kandel, una delle figure di maggiore spicco ma anche tra le più controverse in questo campo di studi, è ora convinto che il suo gruppo di lavoro, con l’apporto decisivo di prove fornite da altri laboratori, sia vicinissimo a trovare la risposta. Le scoperte fatte, nota Kandel, lasciano intravedere una nuova pillola della memoria appena dietro l’angolo.
Al centro della discussione ci sono due proteine, Creb1 e Creb2. Secondo Kandel, la nostra capacità di immagazzinare informazioni a lungo termine dipende dalle quantità relative delle due proteine prodotte nel cervello. Prendendo spunto da alcune delle prime scoperte di Kandel sulle lumache di mare, altri ricercatori hanno dimostrato che versioni di Creb1 e Creb2 sono essenziali per la memoria nei moscerini e, ancora più significativo, nei topi. Questo suggerisce che se le ipotesi di Kandel, sul fatto che le proteine Creb costituirebbero una sorta di commutatore della memoria permanente, sono corrette, è anche probabile che valgano per altri mammiferi, e tra questi l’uomo.
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