Scrivere, che sia un impegno serio o un ingenuo passatempo, è anche – o soprattutto – un modo di cercare conforto, in fondo. Come leggere o ascoltare musica o andare a vedere un film al cinema, del resto.
Non sono tutte belle le cose che pensiamo, diciamo, scriviamo (di quelle che facciamo, nemmeno a parlarne). Per quanta attenzione ci mettiamo, per quanta autocensura ci imponiamo, seminiamo tali eminenti brutture che solo a riconsiderarle, a distanza di tempo, inorridiamo.
Rispondere, rispondere subito, se necessario rispondere anche per le rime, anche senza andare troppo per il sottile, ma rispondere. Se non rispondi, se fai passare del tempo, significa che in realtà non te ne importa (più) niente; peggio, che hai paura e vuoi così evitare il confronto o lo scontro, nel qual caso hai già perso in partenza, non sei fatto per quel gioco. Non che si debba sempre ribattere colpo su colpo e all’istante: a volte passare sopra a qualche episodio o parola spiacevole è anzi preferibile, può denotare maturità e forse anche superiorità; altre volte è magari più fruttuoso replicare velenosamente quando l’interlocutore meno se l’aspetta (pur correndo così il rischio di compromettere del tutto la situazione). Ma come regola generale, mai far passare troppo tempo e mai essere troppo remissivo o accondiscendente. Se possibile, condurre il gioco, muovere per primo e mai chiudersi da sé in un angolo (che equivale a ritenere chiusa l’esperienza o non più degna delle proprie energie migliori).
Quella volta, dopo uno dei frequenti e semiburrascosi commiati pubblici da una mailing list dove avevi il brutto vizio di intervenire a iosa (ma non più di tanto a sproposito), che una collega (con la quale poco prima avevi avuto un piccolo diverbio) ti scrisse in privato invitandoti a ritornare sulla tua decisione: «Non ti conosco, ti ho visto di sfuggita a [xxx], ma mi chiedo: non è che ti sei reso conto di quanto piacere ti facesse essere in [yyy], e hai voluto privartene a bella posta, forse per autopunizione?». Non aveva tutti i torti; anzi, aveva sicuramente ragione (tant’è che presto saresti rientrato puntualmente in lista, dapprima conservando un moderato silenzio, ma poco più in là riprendendo a scrivere a spron battuto, fino al picco di visibilità – e, forse, anche discutibile popolarità – raggiunto con una certa lettera aperta ai giornali). Ma nemmeno tu avevi tutti i torti nel voler adottare questa “autopunizione”, ben sapendo che in certi casi è l’unica maniera di autocontrollarsi ed evitare che a un massimo di net-loquacità (insostenibile) di colpo faccia seguito un massimo di net-silenzio (opprimente).
Il silenzio, il silenzio… un uso – e consumo – più parco delle parole, please! Parrebbe una richiesta e una decisione semplice da ottemperare; nel mondo di oggi, invece, è delle più indicibilmente difficili. Hai così voglia ad annunciare in rete che «dopo il frastuono del di tutto e di più… il silenzio… per qualche settimana mi propongo di staccare totalmente da qui». Basta infatti il minimo cedimento rispetto alla volontà dichiarata di stare un poco più raccolti e quieti – una cortesia, una celia – e una valanga di parole è lì pronta a riversarsi su di noi o a uscire da noi. Il silenzio, perciò, questo miraggio oggidì, questa mèta spesso irraggiungibile, per quanto desiderata o desiderabile, per conseguire la quale bisogna essere decisi a rinunciare a molto, dando allo stesso tempo prova della massima indifferenza e del massimo egoismo. Il silenzio, insomma, che spinto all’estremo non è nemmeno tutto questo gran splendore, ma in tante occasioni ci attrae potentemente e ci trasporta via, finendo al dunque per rigenerarci.
Quando si crea uno strappo serio e quando le parole che si dicono – per meglio dire, si scrivono – sono più che meditate e non dettate da un raptus improvviso, è chiaro, non ci sono più i margini per riannodare una storia. Da eterni romantici, magari ci proviamo pure – una, due, tre volte – benché senza alcuna convinzione. Cerchiamo giusto quell’ultima conferma che, sì, avevamo inequivocabilmente ragione a pensarla in un certo modo. E dopo le lacrime, la forza per sussurrare: Ma va in mona!
Certi giorni, dopo un valzer di luoghi, volti, voci, rumori, colori, emozioni, umori, parole dette e parole taciute, il corpo non si vuole muovere, la mente desidera stare spenta. Da lì un bisogno insopprimibile di stare fermi e isolati al massimo grado. Tappare le orecchie e oscurare schermi e finestre. Neutralizzare le interferenze esterne per ritrovare calma e concentrazione.
Sono irrimediabilmente inquinate le nostre menti dall’immondezzaio del quotidiano mediatizzato. Per disintossicarle e ritrovare una parvenza di ordinario aplomb, ci vuole uno sforzo poderoso, un impeto di volontà quasi sovrumano. Beato chi tutto ignora e passa oltre.
In linea generale, funzioniamo molto al di sotto delle nostre capacità, come mente e come corpo. Con il giusto allenamento, l’una e l’altro possono fare miracoli. Non adeguatamente sollecitati e usati, entrambi cedono.
Resistere alla tentazione del frammento, oggi, della frantumazione. Per provare a ricompattare, rimettere insieme, trovare una sintesi.
Ognuno di noi cerca, ciascuno a suo modo, una maniera di esistere, ora in tono maggiore ora in tono minore, tale che non ci si debba rammaricare, un giorno sì e l’altro pure, di essere al mondo.
Giorni malati, quando non sai dire se sia bello o sia brutto, e resti a letto fino a tardi, pur sveglio da presto, e tormenti le lenzuola in un protratto gira e rivolta, un piede su e uno giù, e alla fine ti rannicchi e stringi il cuscino, gli scuri semichiusi o le tapparelle abbassate, filtra un po’ di luce ma è troppo scarsa, e tristemente pensi a come ognuno di noi sia solo, ognuno con il suo proprio spazio, con la sua stanza o casa tutta per sé, e la caterva di brillanti conoscenze e i mille giri indipendenti e le centinaia di amici sparsi per il mondo, ma di fondo solo, al dunque in balia di eventi più grandi di sé, in un mondo che non sai dire se sia bello o sia brutto, di sicuro vive giorni malati, e tu/noi con esso.
C’è un bambino irriducibile dentro di noi che si ostina a tirare molto tardi per non altro motivo che assistere in diretta alla metamorfosi di una fitta pioggerellina mista a nevischio in neve copiosa. Ed è sempre quel bambino incorreggibile dentro di noi che al mattino, con la neve ancora esitante ai piedi della montagna, continua ad affacciarsi di fuori, quasi eccitandosi ai primi veri fiocchi dal cielo. Chissà invece chi sarà, il bambino o l’adulto, che, perdendosi in un desiderio acuto di neve e nei soavi ricordi di nevicate storiche, sa di non venire a capo di nulla così bellamente imbambolato, ma non se ne duole troppo.
Quel pomeriggio ebbe una nuova conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno: le giornate di pioggia, specie se stentata, lo rendevano di umore nero, apatico e assente. Alle volte nemmeno una musica, nemmeno una pagina scritta, nemmeno una voce amica erano di grande conforto, capaci di riscaldarle e riscattarle. Allora se ne stava lì, nella sommessa attesa che il momento affranto svaporasse, poi pazientemente rimetteva mano al lavoro, per quanto stanco. Stanco di interpretare e impersonare a ripetizione voci non sue, di diventare un altro e subito dopo un altro ancora, la sua voce silente. In qualche modo, però, doveva scuotersi e venir via da quella condizione ricorrente di malinconia e svogliatezza, che lo portava alternativamente a distrarsi senza posa o ad astrarsi senza motivo. Un momento intento a seguire ossessivamente gli ultimi aggiornamenti dalla rete, quello successivo preso dai ricordi vacui di che cosa faceva, pensava, leggeva o scriveva anni prima. E questo malgrado da tempo si fosse ripromesso di non ricadere più nelle nebbie del passato, e nemmeno lasciarsi imbrigliare nella morsa asfissiante di un presente da poco, per provare invece a recuperare almeno una dimensione minima di progettualità futura.
Quell’inizio contrastato dell’estate 2010 decise che non era modo. Come vent’anni prima si giocavano i mondiali di calcio, allora in casa, in Italia, adesso per la prima volta nel continente africano, in Sudafrica. Come allora, non gli interessavano granché, era quasi tentato di tifare contro, di veder uscire presto quella nazionale senza qualità e senza carattere. Come allora, il paese viveva una fase terminale, agonica, l’epilogo ora comico ora tragico ora semplicemente insulso di un suo preciso momento storico, su di cui molti si chiedevano come fosse mai potuto accadere, ma molti di più erano quelli ai quali era andato bene, perciò ora non si curavano delle sue bieche derive. Come allora, molto e molti gli stavano venendo a noia, lo irritavano o non gli davano chissà quale soddisfazione. Come allora, aveva una gran voglia di far niente. Diversamente da allora, doveva però fare, aveva delle responsabilità e non poteva più lasciarsi risucchiare dal niente-vuoto tentatore. Decise così che era tempo di invecchiare, senza che ciò volesse dire diventare decrepito, tutt’altro. Dove era mai scritto, del resto, che a quarant’anni suonati ci si potesse ancora definire giovani? E non era forse quella – il voler sentirsi eternamente giovani, malgrado l’anagrafe; il non voler ammettere che gli anni passano ed esigono perciò un conseguentemente adattamento – la malattia che stava rendendo ridicolo il paese e – sì sì, lui sì – più che decrepito? Sì, decise che era così…
E nulla glielo toglieva dalla testa: era lì, proprio lì, in quegli ultimissimi anni ottanta, quando tutto si era rimesso vorticosamente in moto, che avrebbero potuto/dovuto compiere un grande balzo in avanti e approdare da subito a una nuova dimensione, più in linea con il mondo intorno a loro. E invece era lì, proprio lì, che era mancato qualcosa, che avevano scontato tutto il ritardo accumulato e, anziché correre sciolti e spediti, si erano ritrovati fermi, impantanati, bloccati. (Negli anni successivi sarebbero anche riusciti – con grande fatica – a tirarsi fuori da quella palude, riprendendo – ora con maggiore, ora con minore tenacia ed efficacia – la loro marcia, ma quanto dispendio di energie – fisiche e mentali – e quante gioie e soddisfazioni perse e negate. E, ancora, quanti errori e quanti altri inopinati punti di arresto.)
Una grande fragilità: ti sembra essere questo un tratto che unisce tanta parte di chi è nato dalla seconda metà degli anni sessanta a – grosso modo – i due terzi dei settanta, vale dire chi ha vissuto almeno qualche anno della propria adolescenza negli anni ottanta. Fragilità declinata, tra le tante cose, come emotività, frammentarietà, dispersività, labilità e, va da sé, precarietà, tutte ad alti livelli. Fragilità che esteriormente magari si riesce pure a mascherare, dietro una corazza di apparente sicurezza e tutta una serie di dissimulazioni più o meno riuscite, ma che al fondo permane, inestinguibile.
Ti irridevano, se non insultavano, anni fa, molti tuoi coetanei, o giù di lì, quando dicevi, molto sicuro di te, a tratti arrogante, che i più giovani di noi, noi allora trenta-quarantenni, arrivati già adulti a internet, e spesso tardi e per vie molto traverse anche al nostro mestiere, avevano una marcia in più di noi, ed erano loro il futuro, non noi, noi eterni indecisi o pretenziosi a oltranza, generazione x o peggio ancora. A posteriori credi di poter dire che non ti sbagliavi. Anzi, ogni giorno che passa la tua diagnosi di allora ti appare sempre più corretta. Per quanto, non che tutto ciò fatto dai più giovani sia esaltante e memorabile; né che tutto ciò fatto dai più adulti sia da buttare e scordare.
Che cosa distingue un passato passato da un passato che è ancora presente? Un passato è passato se nulla nella vita quotidiana, nemmeno un fuggevole pensiero, più ci lega ai suoi modi di essere e di fare; è ancora presente se ogni giorno qualcosa, tanto o poco che sia, ci riporta alle sue atmosfere, ai suoi umori, alle sue contingenze e vicissitudini.
Un classico: quando non sai bene cosa fare di te, ripeschi a piene mani nel passato.