Alle origini della nostra identità irrisolta
Volete provare a capire davvero l’Italia? Percorretene la spina dorsale, andate fra gli Appennini: marginali, forse, ma i veri custodi della nostra anima più profonda – spesso, anche la più ripudiata e tradita, ma non per questo meno resistente e pronta a riemergere nel momento del bisogno.
[…] È scandaloso quanto poco si nomini l’Appennino. Nei titoli dei giornali compare cinque volte meno rispetto alle Alpi. Della catena dominante si parla continuamente: convegni sulla transumanza degli orsi, sulle regioni a statuto speciale, i dialetti occitani, il postfordismo del Nordovest pedemontano, la biodiversità nelle Orobiche e i fiumi del Bellunese. Non parliamo dell’Alto Adige e dei suoi maledetti gerani ai balconi. Una pestilenza. Eppure, le Alpi sono solo la cornice esterna del paese. Gli Appennini invece ne sono l’anima, lo stomaco, la colonna vertebrale. E sono lunghi quasi il doppio. Senza di loro, la patria si affloscerebbe come uno Zeppelin senza gas nella pancia.
C’è, forse, che le Alpi sono diventate sentinelle della fede ai tempi del Concilio di Trento contro Lutero e guardiane della nazione alla vigilia della Grande guerra. Gli Appennini, invece, non si sono fatti mai reclutare militarmente dagli stati maggiori. Semmai, sono stati nido di resistenze. O meglio lo sono sempre rimasti, dal tempo dei Sanniti, schiacciati per secoli da Roma. Gli Appennini non si sono fatti riempire di ossari, sacrari e campanili-sentinella. Forse, sono semplicemente rimasti ciò che erano anche le Alpi prima che la patria chiamasse. Un universo anarchico, defilato e solidale, custode di diversità mirabolanti. […]
È come se qualcuno avesse paura di quelle montagne, temesse il risveglio dei Sanniti, degli Apuani o dei misteriosi Etruschi. O forse è la nostra anima cattolica, che dopo secoli teme ancora un confronto con le Sibille, o un incontro con i vecchi dèi – fauni, centauri, Naiadi – in esilio nelle foreste o nelle fiumare del Centro-Sud. Forse c’è qualcosa di non risolto, nell’identità d’Italia.
Attento, mi hanno detto, gli Appennini sono come la ribollita. C’è dentro di tutto e rischi di perderti, di spezzare l’andatura nella ricerca dei singoli ingredienti dell’italico minestrone che invece va mangiato tutto insieme. E allora, per non smarrirti, non hai scelta: devi seguire i gangli della spina dorsale, non perdere di vista quei becchi inconfondibili chiamati “Pen” che migliaia di anni fa hanno dato il nome al tutto e ancora oggi danno il senso al tuo andare. Monte Pènice, Penna, Pennino, Penne, Pennabilli, Pescopennataro. Li trovi dalla Liguria al Molise. Sono le boe di una regata transoceanica, i paletti di un favoloso slalom gigante. Luoghi sacri di cui è rimasto solo il nome celtico e quel brivido che immancabilmente ti prende in cima, dove – mentre guardi senza fiato l’intero universo – una voce ti tenta dicendoti: “Ecco, un giorno tutto questo sarà tuo”. […]
Paolo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 187-189.