Le origini, là dove il cuore batte sempre più forte
Succede sempre così, puntualmente. Succede che ogni volta che ti rivedi con qualche compagno e amico di infanzia o adolescenza, sia questo il frutto di un incontro fortuito o di un appuntamento organizzato con largo anticipo, il tempo si ferma all’istante; anzi, corre subito all’indietro, agli anni e ai tanti momenti passati insieme, al paese e in città, in chiesa e a scuola, tra bar e stadio, partite di pallone e giri in motorino, bische di Natale e festicciole locali.
Da un certo punto di vista è inevitabile che sia così: è l’imprinting che ci portiamo dentro, sono le origini di noi stessi, ciò che in buona parte ha fatto sì che oggi siamo quello che siamo. Per altri versi, è anche il risultato di un non troppo velato senso di colpa.
Senso di colpa per quel frequentare assai poco (il minimo indispensabile), e così da moltissimo tempo (in pratica dagli anni dell’università), tanto il paese quanto la città. Questo, pur non essendoti mosso, di fatto, da dove sei nato; cioè, pur continuando oggi a vivere lì e negli immediati dintorni la più grossa parte della tua vita (vita reale, s’intende; perché quella virtuale e quella intellettuale sono altra cosa).
Va detto che negli ultimi anni c’è stato, a più riprese, un piccolo ma volenteroso tentativo di recuperare anche la dimensione locale, soprattutto per quanto concerne la vita di paese; ma è sempre troppo poco, sempre un’apertura di natura fortemente episodica.
I tuoi interessi ti portano o a concentrarti nello spazio ristrettissimo intorno a te (la famiglia, la terra che coltivi, gli affetti più cari) o ad allontanarti di molto, in realtà nell’immateriale (le letture, i libri, le traduzioni, internet); il concretissimo spazio di mezzo, viceversa, ti vede poco e niente in azione. La dimensione comunitaria, che sia quella con legami antichi o una con caratteri più contemporanei, è insomma parecchio carente.
E però poi succede che a scadenze più o meno regolari (soprattutto intorno allo scoccare di un anniversario comune: i quaranta, i cinquant’anni d’età; i venti, i venticinque o i trent’anni dalla fine delle superiori) si provi a rivedersi di proposito tra vecchi compagni e amici. E con la complicità una volta di Facebook e un’altra di WhatsApp, dopo la cena di rito si prova anche a rinsaldare questi vecchi rapporti dandogli magari una dimensione nuova, slegata per quanto possibile da ciò che si è stati e più ancorata al presente, a ciò che siamo diventati, a ciò che ci circonda, e anche a ciò che probabilmente ci preme per un domani non troppo deteriore, per noi e più ancora per i nostri figli o nipoti.
Succede sempre così, puntualmente. Poi a volte alle promesse seguono i fatti, altre un po’ meno. Ma va bene così, come che sia, purché non ci si dimentichi mai da dove veniamo, quali sono le nostre vere origini, perché per una buona parte siamo oggi quello che siamo.
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Vivono nel ricordo gli anni già giovanili,
retaggio di divertimenti e di sogni acerbi.
La memoria è nitida dei giorni da bambino
tra i mucchi della paglia e il fieno,
su al bosco, al lago, in sagrestia;
le partite di pallone prima della messa e a scuola
i canti, i film, le recite, le figurine,
gli sfottò e le superbie…
Poi gli anni da ragazzo in motorino
al bar, lo stadio, le feste di paese;
con l’autostop a scuola tardi la mattina,
gli scioperi per niente e noia tanta;
le bische a carte di Natale,
l’allergia ai balli a Carnevale…
Di pensare a questo e ad altro pure mi capita,
quando incontro per la strada un volto antico,
quando in macchina per caso al paese passo,
cresciuto assai, non più lo stesso. Allora
rapido il pensiero dalla realtà trasvola.
(marzo 1994)