La “Madonna”
Per anni, e non solo per papà, ma per tutti i nativi delle frazioni più alte del comune di Montegallo (da Castro a Balzo capoluogo a Collefratta, La Cona, Astorara, Colleluce, Interprete, Casale Nuovo e Colle), come pure per quelli di alcune vicine frazioni di Montemonaco (Altino e Vallegrascia, quantomeno), salire il Lunedì di Pasqua alla chiesa di Santa Maria in Pantano – o, per meglio dire, alla “Madonna” – era un appuntamento irrinunciabile, a prescindere da dove le strade della vita li avessero condotto: un gran numero di loro a Roma e nella campagna romana; altri, papà e mamma tra questi, verso Ascoli e le campagne circostanti, così come la costa del Fermano; altri ancora qua e là per l’Italia; e non pochi irriducibili fermi però sul posto.
In ogni caso, soprattutto per i nativi maschi di questi luoghi, Pasqua non era Pasqua se il Lunedì dell’Angelo non si tornava a confessarsi e fare la comunione alla Madonna, per poi adagiarsi sui praticelli circostanti e dare fondo alle provvigioni di salami, formaggi, uova sode, piconi e pizze dolci e con il formaggio approntate per l’occasione. Il tutto fra i ripetuti rintocchi della grande e vetusta campana, di cui si narravano storie e virtù mirabolanti.
Un tempo, forse fino ai primi anni sessanta, per quel giorno si organizzava una vera e propria festa (a luglio si teneva invece una fiera), e per i più piccoli era tutto un fare a “scoccetta” con le uova, mentre per i grandi erano gare a non finire di morra, con un impeto di numeri gridati e movenze così teatrali delle braccia e dei corpi che da soli ti facevano capire quanto ardore e quanta passione animassero tutti questi uomini nati alle falde orientali del Monte Vettore e temprati alle dure fatiche dei pascoli, dei boschi, dei campi, delle cave di tufo e pozzolana nella campagna romana o, come papà, delle miniere di carbone del Belgio.
Comunque, tempo e condizioni delle strade permettendo, ancora per tutti gli anni settanta e ottanta, e buona parte anche dei novanta, la tradizione di festeggiare Pasquetta alla Madonna e far risuonare il più possibile i rintocchi del campanone nelle vallate circostanti venne devotamente portata avanti. Poi, vabbe’, come un po’ tutte le tradizioni di un tempo che fu, con i grandi diventati vecchi o già passati ad altra vita e i piccoli fattisi giovani e adulti generalmente con altro per la testa, anche in questo caso si è andati verso una devozione progressivamente minore.
Non che più di qualcuno non tornasse ancora alla Madonna, appena possibile, che fosse Pasquetta o Ferragosto o un altro giorno propizio, messa o non messa; la folla, l’allegria, l’energia e anche le vedute di un tempo erano però ormai un ricordo. Restava più che altro il richiamo atavico, il bisogno di onorare un simbolo tenuto in così alta considerazione da generazioni di montanari dei Sibillini.
Richiamo che resta forte anche oggi, in questo anno zero del post terremoto dell’Italia Centrale, con la chiesa di Santa Maria in Pantano per gran parte distrutta e la grande campana fortunatamente salvata ma non più in loco.
Papà difficilmente potrà sentire di nuovo quel suono, e ancor meno rivedere in piedi la chiesa che per anni lo vide salire con la sua prima Cinquecento (con non poca apprensione di chi restava a casa o lo accompagnava) per prendere Pasqua e rinverdire con i vecchi compaesani i ricordi delle mattane di quando erano giovani e con decisione e coraggio si apprestavano a prendere strade che, ognuno a suo modo, li avrebbero portati lontano, facendo davvero tanto, per sé e – più ancora – per i loro figli.
Un giorno, possibilmente non troppo in là negli anni, spero di poterlo fare io per lui: salire alla Madonna, in macchina ma meglio ancora a piedi, magari un Lunedì di Pasqua, allietandomi alla vista di una chiesa rimessa su e di una vetusta campana di nuovo in funzione, al suo posto.