Sono stanchi i tuoi occhi, iniettati di sangue la sera, e incrinato l’umore, provato, quando prolunghi le sedute davanti a un computer, e l’eccitazione per tutto quello che leggi e che scrivi o traduci non ti ripaga della luce naturale che perdi, dei colori di fuori che non vedi, dei suoni che non senti, dei sorrisi, le carezze, gli abbracci e baci che non ricevi e non dai.
Le sere e le mattine che rivuoi quanto più per te, via dalla smania di stare incollato a uno schermo a controllare le ultime news, gli ultimi aggiornamenti di stato, gli ultimi post, le ultime email promozionali.
Una forma di resistenza non lasciarci schiacciare dal presente, dalle sue ombre limacciose, dalle sue idiozie ricorrenti, dalle sue perduranti malattie. Una forma di resistenza anche non indulgere in nostalgie vane e false idealizzazioni passatiste. Una forma di resistenza leggere e studiare e pensare e argomentare e ideare e progettare e realizzare. Una forma di resistenza immaginare e sviluppare una storia o soltanto fissare un’impressione, un pensiero, un’immagine. Una forma di resistenza cercare di allungare il respiro di tutto ciò che facciamo. Una forma di resistenza sforzarci di amare ogni giorno un po’ di più.
Non sapere, oggi come in altri giorni, se andare a rituffarti in piscina, a correre, a pedalare, prendere un treno o startene fermo e buono dove sei. Questo è solo un dettaglio, risibile, lo sai. Eppure, sono sempre i dettagli, le inezie, i malesseri minimi ma ricorrenti, a raccontare una storia, definirne i contorni, palesare quel qualcosa di più che spesso sfugge o è messo a tacere. I dettagli, così, a volte fanno anche pensare. Se è sabato e sei mezzo esausto da una settimana solo apparentemente come le altre (ma non sono mai uguali le settimane, e nemmeno i giorni, nemmeno le ore, nemmeno i minuti: ogni attimo è un concentrato straordinario di diversità, di dettagli irripetibili), ancora di più. Ma neppure il più dettagliato pensiero sui dettagli la può sul fascino irresistibile di un cielo rosa-arancio al tramonto di un sabato molto resistibile. Anche questo è un dettaglio, ma fortuna che per una volta non te lo sia lasciato sfuggire.
Non riuscire a fissare l’umore della giornata in una semplice immagine, in poche brevi parole. Questo rende inquieti e nervosi, senza un motivo. Come dire che è stata una giornata inquieta e nervosa, senza un motivo.
Basta poco, basta rilassarti un momento di troppo o di colpo essere risucchiato dalle impellenze di qualche attività collaterale, e in un niente sei in ritardo sulla tabella di marcia e, ciò che forse rattrista di più, senza nulla da argomentare, senza nulla da fissare.
Queste cose da fare al mattino, queste incombenza da sbrigare, queste pratiche da sistemare. Viene a mancare il tempo per te, dai e dai. E senti che qualcosa si perde, se ne va. Si crea un’interruzione, una frattura che non è facile, non è immediato rimarginare.
Sfiniscono le interruzioni, buttano giù. Pensare agli altri, prestarti a una gentilezza, quando in realtà è a te che dovresti pensare per non restare indietro, per non ritrovarti puntualmente con l’acqua alla gola, non ti farà sentire uno stronzo ma di certo non ti fa guadagnare tempo.
Alla fine sono sempre loro che non fanno tornare i conti: le mezze giornate perse per questa co(r)sa e quell’altra, senza averle dedicate a te.
Ma troppo assorbiti da noi stessi, dal nostro misero io ossessivo, dalle nostre piccole (pre)occupazioni e dai nostri cazzeggi (sì, spesso è così, è incontestabile), finiamo troppe volte per trascurare o dimenticare le cose e soprattutto le persone davvero importanti. È l’istinto di sopravvivenza, il bisogno di evolvere, di andare avanti, di non fermarci e non affliggerci oltre il dovuto, si dirà, ma quanto perdiamo così.
Corri, corri, fai, ti sforzi, ti ingegni, sbagli, ti correggi, cadi, ti rialzi, ti riprendi, rinciampi, ricadi, di nuovo ti rialzi. Ci provi, ma tutti di certo non riuscirai mai ad accontentarli, non come vorrebbero loro almeno. Meglio prenderla con filosofia, allora, e non impazzirti né abbatterti mai più di tanto, finché dura.
Il nostro rischio più grande? Ripeterci, ripercorrere vecchie strade e abitudini anche quando non è più il tempo, quando da noi si richiede semmai un balzo deciso verso nuove attitudini, verso nuove risoluzioni, verso nuove idealità, assumendo quanto più uno sguardo nuovo.
Siamo, soprattutto nel lungo periodo, esseri monocordi, che tendono a ripetersi, a fare/dire/pensare suppergiù le cose di sempre? Possibile. Più che possibile.
È la disciplina che manca, verrebbe da dire; un darsi e rispettare delle regole, un metodo, una prassi. Ne rifuggiamo, invece, ne facciamo a meno, volutamente e no, improvvisando e tamponando alla meglio le tante falle, ricorrenti, insistenti. Ma non dovremmo farcene un vanto.
L’obiettivo professato, da ultimo, è giorno dopo giorno abbassare il livello di inquinamento emozionale e mentale, grazie a un ridotto input informativo, e recuperare così una maggiore fluidità del pensiero. Provarci si può, si deve. Riuscirci esige tuttavia una disciplina che, per come siamo fatti o come siamo diventati, è di per sé un’impresa. Ma disciplina è anche sforzarci di trovare una linea di continuità tra le idee, i pensieri, i ragionamenti che si accendono nella nostra testa e, se siamo nella vena giusta, poi portiamo avanti. Non si può cioè scrivere – anche su un blog, di fatto – tutto quello che viene in mente, come viene in mente, ma è necessario che si delinei e sviluppi una sequenza. Senza, siamo sempre lì, eternamente alla mercé delle bizze del momento. E soddisfatti/felici, alla fin fine, solo così così.
Cominci a essere stanco di nuovo, nuovo, nuovo, dillo: non ti lasci più incantare. Meglio il vecchio – ma non di ieri: dell’altro ieri.
L’anima che periodicamente s’intorbida, come l’acqua percossa da correnti stizzite sopra un fondo di melma e sabbia.
Poesia e nostalgia di un tempo che fu, povero e scarno quanto si vuole ma con tutt’altro sapore – ampio, avvolgente, caldo – rispetto a quello venuto poi e, ancora di più, quello di oggi. Che fortuna averlo conosciuto, anche per poco e di striscio.
I nostri genitori che a cinquant’anni, ma anche quaranta se non trenta, il più delle volte ci sembravano già vecchi. Noi che alle stesse età manteniamo un’aria giovanile e a tratti sbarazzina. Forse fin troppo.
Non credere. Non credere che proseguendo così, senza rivedere e rimettere in ordine un bel po’ di cose, sarà una bella fine.
È stato – in parte forse lo è ancora e, se vorrà, magari in futuro saprà esserlo di più – un bel paese, ma oggi come oggi non dà grande gioia. Molto c’è da ripensare, molto da demolire, molto da meglio costruire.
Come sarà tra qualche mese o anno, vallo a sape’. Ma ora come ora, bella nen è! Il dato che con più forza emerge nella vita di tutti i giorni è quello di una crescente complessità e, in parallelo, una sempre più vistosa fragilità.
Il futuro passerà probabilmente per la riscoperta, la riconsiderazione e la rivalorizzazione del nostro passato più remoto. Il presente, di sicuro, passa già per la resa dei conti con il nostro passato prossimo.
Quella sensazione di naufragio di chi, sommerso da troppe cose, apprensioni e incombenze, non si ritrova più o mai si è veramente trovato.
Un malessere sordo, diffuso, compresso, malcelato, nella vita di molti di noi. Insoddisfatti, sfiduciati, malfidati, dilaniati, sempre più spesso squattrinati, dunque, se non fuori, dentro quanto mai incazzati. Il malumore cova, ribolle, a tratti fuoriesce, esplode. A farne le spese, il più delle volte, le persone più care, le più innocenti.
Dipenda solo da noi o anche dal tempo, incerto, mutevole, fragile, sfranto, ma è un periodo in cui gli entusiasmi, quelli veri, intensi, vibranti, durano poco, due, tre giorni quando va bene, sulla scia di qualche emozione viva, profonda, potente, poi risubentra un indistinto grigiore, un clima fiacco, svogliato, sterile, asettico, come mancasse linfa, slancio, vigore, come se tutto tornasse a essere come sempre, fioco, sbiadito, smorto, mediocre, consumato nell’attesa rassegnata di qualcosa sempre là da venire.
Quante volte, nella nostra vita, ci saremo dati la proverbiale zappa sui piedi, procurando più o meno inconsapevolmente un danno a noi stessi. Succede di continuo: quando diciamo di no a tante buone occasioni, perdendo così opportunità potenzialmente d’oro; quando siamo troppo incerti e titubanti e restii davanti a tante situazioni che viceversa andrebbero colte al volo e sfruttate al meglio; ma anche quando non sappiamo dire di no a tante cose che dentro di noi già sappiamo che non produrranno nulla di buono, e invece non siamo sufficientemente forti e lucidi da opporci. Capita, e con gli anni finiamo anche per farcene una ragione. Ma quando ci ricaschiamo, o vediamo altri farlo, qualcosa dentro di noi si muove e pensa a quanto siamo stupidi e malaccorti tante volte.
Cercano, uomini, donne, libertà, indipendenza, ma viene il momento che, da soli, non ce la fanno.
È o dovrebbe o potrebbe essere un processo continuo di vaglio, cernita, messa a punto, ridefinizione, cambio, ritorno sui propri passi e ancora scarto, ribaltamento e scatto in avanti. Molto più spesso è solo un cercare e cercare.
Indietreggiare, rallentare, allontanarsi: per avere una visione d’insieme migliore – e godere di uno stato d’animo più sereno.