«La passione, la fede e tanto amore»
Succede, mica non succede, che a fare qualcosa «per noia o per sfizio o per sfida» si attengano anche risultati discreti, buoni o in qualche caso addirittura ottimi.
La pizza dolce di Pasqua con il lievito madre di ieri, per esempio, non è venuta male: un po’ stopposa verso il centro e il basso, forse, indice dunque di una preparazione o una cottura non perfette, ma per il resto ben riuscita come aspetto e come consistenza e più ancora come sapori dal carattere antico. Un esito sostanzialmente più che positivo, perciò, tenuto altresì conto che si trattava del primo approccio a un dolce da forno complesso.
Ma pur ammesso che dandosi da fare «per noia o per sfizio o per sfida» talvolta si riesca discretamente in qualcosa, e anche in tempi abbastanza brevi, a livello generale tale modus operandi non è sufficiente, non è raccomandabile, non è affatto garanzia di successi concreti, duraturi (o, se si diffida del concetto di “successo”, diciamo che non conduce a una vera “maestria”). Di rado, cioè, conduce a risultati efficaci anche sul più lungo periodo; di rado produce qualità e distinzione.
Può giusto essere un buon punto di partenza, ma per andare oltre è richiesto altro. Moltissimo altro.
Quantomeno ci vuole un impegno intenso, regolare, unito a una straordinaria capacità di reggere alle difficoltà e ai problemi che inevitabilmente si incontreranno lungo il percorso scelto, e più ancora una spinta a migliorarsi sempre, a non accontentarsi di quanto già ottenuto (magari sulla scorta di preziosi talenti innati, che però da soli, senza una pratica assidua e deliberata, non conducono a nulla di solido).
Il tutto avendo costantemente come faro una cultura a tutto tondo della bellezza, della cura, della qualità, dell’eccellenza.
Detto altrimenti, qualunque sia il settore nel quale ci si voglia specializzare, andando al di là dell’hobby estemporaneo e puntando invece alla padronanza vera, alla maestria, «dobbiamo metterci la passione, la fede e tanto amore», prendendo a prestito delle parole e dei concetti reiteratamente incontrati in un ottimo e consigliatissimo libro sull’olio d’oliva (il mio vero totem in questo periodo, molto più del pane o i dolci fatti con la pasta madre) finito di leggere giusto ieri e di cui sotto propongo uno stralcio direi ben rappresentativo.
«Stanno cercando di abbassare la qualità dell’extravergine al minimo comune denominatore, di trasformare l’olio d’oliva in una merce qualunque» dice Francisco [Vañó, comproprietario del Castillo de Canena, in Spagna, e dell’omonima azienda olivicola, da una decina di anni produttrice anche di extravergine di qualità eccelsa, in controtendenza rispetto a gran parte della produzione spagnola, orientata sull’olio sfuso di bassa qualità]. «I contadini di Jaén [provincia dell’Andalusia dove si producono 500mila tonnellate di olio d’oliva all’anno, quanto tutta l’Italia] continuano a fare l’olio nel modo meno costoso possibile. Continuano a non credere che la qualità paghi e a non capire che il futuro della filiera sta proprio nella produzione di extravergine autentico».
Domando allora perché quelle organizzazioni, trovandosi a fronteggiare il crollo dei profitti nel settore dello sfuso, non comincino a fare olio di qualità come il Castillo de Canena. «Le risorse ce le hanno» ribatte Francisco. «Potrebbero ingaggiare quindici Francisco Vañó, o quindici persone più brave di me. Ma non lo fanno, e gli sporadici tentativi di produrre olio di qualità sono stati un fallimento. Non hanno la passione, che è l’unico modo per fare olio buono. Non si tratta solo di soldi: mica stiamo fabbricando chiodi. Dobbiamo metterci la passione, la fede e tanto amore. In ultima analisi, penso che abbiano paura di noi». Si zittisce, come se non ci avesse mai pensato prima e trovasse l’idea sconvolgente.
Tom Mueller, Extraverginità. Il sublime e scandaloso mondo dell’olio d’oliva, traduzione di Maddalena Fessart, EDT, Torino 2013, pp. 168-169.