Con una misura di saggezza
Non volersi più fiondare a scribacchiare e condividere di questo e di quello, appena alzato o appena davanti a uno schermo. Non meno del non volere più leggiucchiare spasmodicamente a destra e a manca, per tutto il giorno, in realtà senza più riuscire a focalizzarsi per bene su alcunché. Non meno del non volere più essere succube di aggiornamenti e link e commenti e video e foto e tag e altre dispersive sollecitazioni. Non meno del non volere più consultare la casella di posta più di tre-quattro volte al giorno o rispondere all’istante e dettagliatamente a ogni messaggio. Non meno del non volere più distrarsi ed essere distratto in continuazione e per cose di nulla o scarsissima utilità.
Non una marcia indietro tutta. Solo un deliberato tentativo di porre un argine alla deriva dissolutrice della vita digitale, per impedire che il cervello si conformasse con rapidità sconcertante a standard sempre più modesti. Solo la volontà, per dirla con parole altrui, di (ri)provare a «usare internet con una misura di saggezza», prima che si finisse per odiarla, attribuendole anche colpe che oggettivamente non aveva.
Di fondo, l’idea che il digitale non lo affascinasse più come un tempo: gli pareva che avesse “sequestrato” un po’ troppo le loro vite, spesso anche banalizzandole. Staccarsene almeno per qualche ora a settimana, e specialmente nei momenti di svago, lo riteneva perciò un utile esercizio, disintossicante e rigenerante allo stesso tempo.
Invece, che fosse un cinema, una pizzeria o un qualunque altro locale pubblico, al chiuso o all’aperto, la prima cosa che saltava agli occhi era che quasi tutti, appena si sedevano, anziché rilassarsi e prestare un minimo di attenzione alle persone che avevano vicino e a quanto li circondava, subito mettevano mano all’immancabile smartphone e, sguardo basso, cominciavano a manovrare sugli schermi con i pollici (in Non è un mondo per vecchi, Michel Serres parlava di tanti “Pollicini”) come se proprio non potessero farne a meno. Al che, gli cascavano un po’ le braccia e dentro di sé pensava: “Ma è a questo che è servita la rivoluzione digitale? A rincitrullirci fino a questo punto? No, scusate, io un freno a questa deriva, almeno per quanto mi riguarda, lo voglio porre: che per caso mi voglio far comandare da un gingillo elettronico? Che davvero ne sono diventato tanto dipendente da non poterne fare a meno manco per due ore? Ancora no, per fortuna”.
E poi, ancora, l’impressione che stare oggi sui social, come l’altro ieri su liste e bacheche, fosse un po’ come ritrovarsi tutti quanti insieme in un bar, amici di vecchia data e mai visti di persona, conoscenti e perfetti sconosciuti, discutendo e giocando, condividendo e mascherando, sparando cazzate e pavoneggiandosi, scambiando mezzi sorrisi e palesi livori, tra gioia male esibita e malcelata perplessità. E c’era però chi amava di più ambienti più discreti e ristretti; chi ancora si attardava su un blog come fosse il tavolino di un vecchio caffè; chi ancora era più affezionato al mondo imperfetto ma vivo e sanguigno di ieri che a quello perfettino e anodino e asettico dei gadget superfighi e dei loro patiti di oggi e di domani.
E, infine, il bisogno di non disperdere più troppo ciò che pensava e diceva e scriveva, per brutto che fosse.
Eccolo lì, brevemente riassunto, il suo auspicato nuovo approccio alla vita digitale.