Scampoli di un anno dimesso
Era stato un anno dimesso, il 2014: non ci pioveva. Cioè, piovere aveva piovuto, altroché. Ma non era stata solo la pioggia – o, se per questo, non erano state solo le tante giornate umide e grigie, e le temperature a lungo autunnali anche in primavera ed estate – a determinare quel clima moscio, mogio, tutto fuorché allegro, spensierato, frizzante, solare. Erano tanti i fattori, tante le concause. E non si poteva certo parlare di una situazione di crisi conclamata e generalizzata venuta alla luce solo di recente. Ci si poteva semmai stupire di come finora si fosse perlopiù continuato a fare molto finta di niente, come a voler esorcizzare la paralisi che inevitabilmente si determina quando si capisce di non poter rimandare oltre un esame approfondito delle difficoltà in cui ci si dibatte da tempo.
Ma a dispetto delle note più che negative che si continuavano a cogliere in giro, a livello personale non se la sentiva di parlare di un anno in tutto e per tutto deteriore. Pur nel suo tono fortemente dimesso, era stato vivo; per tanti versi, anche produttivo. Sul piano materiale e anche su quello intellettuale. E se sul primo era piuttosto reticente, non amando esibire troppo, mai particolarmente contento di sé e di quanto riusciva a creare, nemmeno quando ci si metteva con impegno serio e i risultati dunque si vedevano, sul secondo non aveva particolari riserve. Andava cioè abbastanza fiero dei rinnovati sforzi di lettore a tutto campo, non meno che dei pensieri e delle parole che sovente ne scaturivano.
A scontentarlo oltremisura era solo la protratta, pervicace, deleteria frammentarietà. Quel disperdersi continuo in mille rivoli. Quel non riuscire ancora a evadere dalle sollecitazioni e le urgenze del momento per dedicarsi invece con costanza e disciplina a qualcosa di più mirato, studiato, curato, compiuto.
Così, anche solo per punirsi di tanta smania dissipatrice, periodicamente sentiva il bisogno di premere sul pedale del freno, fare una perentoria svolta a u e tornare sui suoi passi. Tornare cioè a rileggersi. Tornare cioè a cernere tra le molte annotazioni. Tornare cioè a riscrivere in una veste possibilmente migliore.
Eccolo dunque lì, alla fine, preso a raggruppare e in qualche modo risistemare anche gli ultimi scampoli sparsi di quell’anno dimesso. Gli ultimi in assoluto, si augurava, anche se lui per primo non ci credeva.
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(9 gennaio 2014)
Dove non poterono i buoni propositi di fine anno poté l’influenza di inizio anno, con una prolungata giacenza a letto con febbre anche alta (rarità per lui, di solito alle prese solo con dolori alle ossa e mal di testa) e la concomitante intolleranza a luce e video: disintossicazione forzata dal cibo e soprattutto la rete. Lavorandoci su, rimessosi, spurgato e depurato per bene, sai che figurino sarebbe potuto ridiventare!
(11 gennaio)
Solo la bellezza, una bellezza non banale, li avrebbe (forse) salvati.
(14 gennaio)
Fuga dall’oggi, ripudio dell’oggi. Tuffo nel mondo di ieri, oggi, per riconciliarci con l’oggi, forse, domani.
(16 gennaio)
La fame, prima, la scarsità. Poi l’abbondanza e l’abbuffata, spesso l’indigestione, per tanti. Infine la dieta e appetiti più modesti, e saltuariamente un digiuno, depuratore. Anche nei consumi culturali. Nulla di più, nulla di meno.
(16 gennaio)
Classica situazione da “aspettando Godot”: aspettavano, aspettavano, senza neanche più sapere chi o che cosa o perché.
(16 gennaio)
In un 2014 alla partenza del quale si potevano fare ben poche illusioni che non sarebbe stato fino alla fine zeppo pieno di incognite e anche ostacoli seri, pesanti, un primo obiettivo commendevole, e di sicuro non irrealizzabile, era leggere almeno un libro più dell’anno precedente. Nel suo caso si trattava di raggiungere quota 21. Con un po’ di costanza e fuggendo quanto più la deconcentrazione delle letture (e anche le scritture) brevi, sarebbe dovuto arrivarci senza particolare fatica. A dispetto dei giorni persi per l’influenza e la fotosensibilità indotta, metteva già la prima tacca e assegnava anche le prime cinque stelle dell’anno.
(18 gennaio)
Depresso il cervello, depresso anche il corpo. Placate le smanie di dire, placate le smanie di fare, l’inverno una lunga convalescenza.
(21 gennaio)
Narcosi + inerzia + (presunta) furbizia = paludosa Italia.
(21 gennaio)
Un po’ di Rai 5, un po’ di Rai Storia, un po’ di Rai News (il minimo indispensabile per sapere le ultime), ogni tanto un pizzico (non di più) di Rai 3 regionale. Il resto, in tv, si poteva anche ignorare.
(22 gennaio)
Una cultura, la loro, esteriormente piaciona e condivisiva, sollecitati ovunque a esprimere “Mi piace” e condividere contenuti e commenti. Il sentimento dominante era in realtà il disprezzo: il disprezzo per gli altri, il disprezzo per la vita collettiva, il disprezzo per il bene condiviso. Mentre il principio guida restava sostanzialmente il pensare per sé, ai propri interessi particolari, altro che il mettere in comune. Quando si diceva l’opposizione tra la superficie e l’interno.
(31 gennaio)
Finì gennaio, mese malato. Più le ore giaciute di quelle in piedi o sedute. Più le calme e lineari pagine lunghe dei nervosi snippet di testi. Alla fine non furono giorni così malati.
(6 febbraio)
Only little by little, you got yourself – or, for that matter, anybody and anything else – functioning in other ways than the old and usual ones.
(7 febbraio)
Libro numero cinque dell’anno andato: più una novella che un romanzo, letto (su Kindle) in meno di un giorno, quasi a compensare la fatica (ma senza uguagliare il piacere, la profondità, la complessità e la profusione di spunti, stimoli ed emozioni) di altri scritti (saggi, raccolte, biografie e memoir, in prevalenza su carta) per i quali una settimana è spesso insufficiente. Di nuovo, così, la conferma che tralasciando un po’ le letture brevi e frammentarie (indifferentemente del web e della carta stampata), e al contempo riducendo l’esposizione al pervasivo e ottundente rumore di fondo, si riusciva a leggere meglio, di più e, alla fine, anche più rapidamente.
(12 febbraio)
E dunque, bruciando le tappe, tutto sembrava indicare un imminente catapultamento al governo di Renzi il Salvifico. Ma, con i debiti scongiuri, fossero andati male anche lui e la sua immaginifica, giovine squadra che si faceva? Tutti quanti insieme a tagliarsi le vene? Che i santi numi gliela mandassero buona! Per meglio dire, che se la mandassero buona loro!
(12 febbraio)
The apt OED Online Word of the Day: “Alacrity: Liveliness, sprightliness; briskness, speed; cheerful readiness or willingness. Also: an instance of this.” Also: The need to find and aptly cultivate a new one.
(13 febbraio)
Ridiculì ridiculà, come erano arrivati fino a là? Un giorno forse qualcuno glielo avrebbe spiegato, ma dentro di loro lo sapevano già: in Italia c’era poco da fare, pe riffa o pe raffa se feniva sempre pe leccechegnà. E cuscì, ne restava che terà a campà.
(14 marzo)
Confermato: bastavano due giorni belli a inizio o metà marzo, con qualche ora all’aperto, e una faccia colore dei fiori di pesco era il regalo più bello che ci fosse, con quel piacevole pizzicore sotto la barba di una settimana a segnalare che era finalmente iniziata la primavera.
(21 marzo)
Quando si avevano tante incazzature in corso, nella testa e nel corpo, meglio lasciar perdere, meglio non provarci nemmeno a fare o scrivere o dire qualcosa finché non ci si fosse sveleniti e alleggeriti almeno un po’. Meglio silenziarsi e quietarsi. Al più, osservare e ascoltare e leggere solo distrattamente.
(27 marzo)
C’era molto, molto, ma proprio molto da fare in direzione di una cultura a tutto tondo della bellezza, della cura, della qualità, dell’eccellenza. Era triste ammetterlo ma, in massima parte, quanto erano ancora mediocri, di scarso valore, molto al di sotto della sufficienza nonché delle loro concrete possibilità. Per quanto spesso gli piacesse credere o far credere il contrario.
(27 marzo)
Non pensare di essere migliore di altri. Semplicemente ritenere di potere, con il dovuto impegno e un’adeguata passione, non sfigurare troppo nei confronti di chi, per un talento innato e coltivato nel tempo con pratica assidua e deliberata, era sicuramente tra i migliori. Pensare cioè che, facendo i compiti a fondo, per bene, senza ricorrere a furbizie o limitarsi al minimo indispensabile per tirare avanti, si potesse aspirare a migliorare sul serio e puntare così alla distinzione e all’eccellenza.
(27 marzo)
A leggere le tipiche pagine dei ringraziamenti di un autore americano di saggi ci si sentiva davvero piccoli, nel confronto tra quella meticolosità ossessiva nel citare nomi e fonti (oltre che nel condurre ricerche) e la loro molto più spiccata trascuratezza e superficialità.
(4 aprile)
Il pleuvait sur la fine de semaine ; il pleuvait sur le quatre d’avril. On ne s’inquiétait pas !
(9 aprile)
Il pleuvait et depuis / il sortait le soleil. En avril / un amour de vie.
(15 aprile)
“Stop. Stop deprecating. Stop, at least, deprecating yourself,” sometimes he’d say to himself. “It’s no great use. So, stop doing what adds up to almost nothing. Do only what makes you, in little or great measure, happy and proud of yourself.”
(22 aprile)
Pasqua 2014 segnò che cosa? Un cambio di paradigma? Un ritorno al passato o un ritorno al futuro? Tornò di sicuro il fai da te, il fai in prima persona, il fai in casa o molto vicino a te, con un rifiuto di logiche marcatamente consumistiche e commerciali e la ricerca generale di una qualità migliore. Meno ma meglio. Meno ma più curato. Meno ma più coinvolgente. Meno ma più esperienziale.
(22 aprile)
Un segno dei tempi che cambiavano, della crisi che mordeva, della perdita di coesione e forse anche di identità: la gran festa che un tempo il martedì dopo Pasqua si teneva al paese dirimpetto, con giostre, musicanti, strusci e intasamenti di strade; e il silenzio assordante di quell’anno, senza nemmeno un botto a marcare la ricorrenza e la chiesa ancora chiusa dal terremoto dell’Aquila.
(23 aprile)
Sempre più gente che andava in palestra o in piscina o che pedalava, che correva, che camminava di buona lena, per salute e per sport. Tutto molto lodevole. Ma di fondo restava un’idea di pervasiva fiacchità, anzi di fiacch’età. Che tante energie, che pure c’erano, fossero spesso impiegate in direzioni apprezzabili ma nondimeno fuorvianti? Che ci si crucciasse solo di curare i sintomi, continuando a tralasciare le cause profonde delle loro tante malattie?
(26 aprile)
Che noia le persone serie. Per non dire di quelle artificiosamente o naturalmente seriose. Ma che di ripristinare un po’ (tanta) di serietà ci fosse bisogno non si stancava di pensarlo e affermarlo, alla luce dello sconfinato sbracamento prodotto da trent’anni di dominio del pessimo gusto televisivo, di arraffa-arraffa politico e imprenditoriale e, spiaceva dirlo, di decadenza culturale, sociale, umana. Il problema era da che cosa o da chi ripartire. Cioè, c’era ancora qualcosa o qualcuno che, senza troppe riserve, potesse essere assunto a metro di paragone, a esempio, a guida, a faro? Si sforzava di pensarci, ma una risposta a prova di fuoco non gli veniva, non gli veniva, non-gli-ve-ni-va!
(28 aprile)
Troppi giorni festivi l’uno a ridosso dell’altro, tra Pasqua e il primo maggio, quando non c’era molto da festeggiare, quando in verità non c’era quasi più nulla capace di tirare su stabilmente umori che se festivi riuscivano a esserlo ormai era solo per brevissimi scampoli. Così era tutta una schizofrenia di sentimenti, di alti e bassi, di euforiche manie e stati cupamente depressivi. Era vero, insomma, come diceva il poeta, che «aprile è il più crudele dei mesi».
(7 maggio)
Stanco, ma di una stanchezza felice, fisica, per niente intellettuale. Epperò cominciava a mancare, dopo diversi giorni a tutta manualità, a tutta pratica, a tutta forza di braccia e intelligenza empirica, il lato riflessivo, astratto, verbale.
(13 maggio)
Non pesava da maggio ad agosto il distacco, la lontananza, la mancata presenza, l’assenza silenziosa. Anche se di piccolo conto, non mancavano le cose da fare. Anche in stagione di magra, non mancavano le occasioni di svago, piccole e grandi. Ridotta era soltanto la smania di sapere, di comunicare, di dire. Ridotto era il bisogno di stare connessi ore e ore attraverso uno schermo. Accresciuta la voglia di evadere, di stare in disparte, di togliere ogni maschera e ripristinare il volto più vero.
(19 maggio)
Da non credere quanto fosse forte, quell’anno, la renitenza al voto, europeo e locale. Era come se di colpo (di colpo? diciamo più dall’anno prima) fosse scattata un’allergia totale alla politica, e per ora non c’era rimedio che tenesse, a parte girarle molto ma molto al largo.
(20 maggio)
They felt sad, they felt angry, they felt depressed. They kept going, procrastinating.
(17 giugno)
Ah la gente, lietamente rincoglionita, a frotte nel pomeriggio piovoso d’estate dentro il centro commerciale. Ah la gente, disoccupata, pensionata, sfaccendata, annoiata, fissa davanti a schermi piccoli e grandi. Ah la gente, la gente che non sapeva cosa fare di sé se appena appena le toglievi la partita, la tv, lo smartphone, il computer, le faccende di casa, la scuola, le corse di qua e di là, un lavoro pagato che fosse uno.
(18 giugno)
Il tempo era ancora malato, disse il papà sommessamente, alzando gli occhi al cielo grigio e piovigginoso. Loro – i meteoropatici – ne erano lo specchio fedele, pensò lui, avvilito e di nuovo mezzo depresso per il terzo giorno consecutivo dalla sospensione forzata di lavori che solo una settimana prima lo facevano sudare a catinelle ma inebriandolo di gioia e soddisfazione per un ritrovato pieno senso di operatività ed efficienza fisica e mentale.
(26 giugno)
No alla perfezione, si sentiva di dire. No alla levigatezza. No all’asetticità. No alla conformità. Sì alla nota stonata. Sì al rumore. Sì al fuori fuoco e il fuori dal coro.
(30 giugno)
Era un male per l’economia (era un segno evidente che fosse più che rallentata e per ora non dava prova di ripresa), ma di quei tempi guidare in autostrada senza code di tir che facevano a gara a sorpassarsi o, se solo si azzardava a non superare i 90 km/h, gli si appiccicavano dietro manco fosse il film Duel, stava diventando quasi rilassante.
(30 giugno)
Tutta quella “eventizzazione”, spettacolarizzazione, teatralizzazione e, in generale, mediatizzazione spinta di tutto ciò che ruotava intorno al libro, la lettura, la scrittura, la stessa traduzione: uff! All’inizio poteva anche piacere e attrarre fortemente; dopo un po’, che barba, che noia, che voglia di tenersene lontani! Che voglia, soprattutto, di girare al largo dai gruppi e i gruppuscoli che, inevitabilmente, di quegli eventi costituivano il nucleo propulsore, la compagnia di giro, il grosso degli ospiti fissi.
(1 luglio)
Loro e il tempo, il tempo e loro, loro che non avevano più una percezione troppo buona del tempo che si trovavano a vivere, loro che di fatto si trovavano sempre meno, nel tempo e anche fuori dal tempo.
(7 luglio)
Poi della sera – sera appartata di luglio, dopo un lungo giorno accaldato, sudato, estenuato – il respiro lento, pigro, rarefatto, distaccato, quieto.
(24 luglio)
Viaggiando in treno tra Weiden in der Oberpfalz e Pescara, schizzi di pensieri. E un ritratto con l’accetta di tanti italiani degli anni zero e dieci del terzo millennio: pigri, comodi e, a dir poco, lagnosetti, nonché presuntuosetti (e, più ancora, ignorantelli, aveva aggiunto un amico). Da lì l’origine di molti dei loro attuali guai? La risposta fosse sì, ni o no, erano comunque difetti da correggere.
(17 settembre)
Credere poco a tutto e, sempre più spesso, anche a tutti: il grande problema di quel tempo sfranto, che a tanti, troppi, impediva di vivere il loro tempo con slancio, fiducia, ottimismo. O all’opposto la loro grande fortuna, ciò che evitava cocenti delusioni a ripetizione, risparmiando anche insidiosi accessi di fanatismo?