Tradurre la letteratura
[C’erano anni in cui andavamo agli incontri sulla traduzione. Anni in cui frequentavamo corsi sulla traduzione. Anni in cui traducevamo, per puro diletto, sulla traduzione. Sbagliando, magari, ma almeno c’era slancio, c’era voglia di fare, voglia di esplorare, voglia di andare. Quello che oggi troppo spesso manca. Oggi che, per un verso o per l’altro, troppo spesso siamo fermi. Il buon senso fatto persona. Che orrore! Tempo di fare più di un reload? Qui, riandiamo al 2004. Quando ancora avevamo numi tutelari. E uno di questi si chiamava Henri Meschonnic. E scusate se è poco.]
[…] Mentre la letteratura è invenzione permanente, dentro e contro le tradizioni, riconosciuta solo se tale, pena non essere niente, quella cosa epigonale del mercato dei libri, la traduzione è un campo di attività dove la tradizione non solo è più forte dell’invenzione, ma è considerata la condizione stessa dell’esercizio e della riuscita. In letteratura non ci sono ovvietà. Nella traduzione certe ovvietà fanno la legge. È l’autorità innegabile dell’ovvietà che la traduzione funzioni nella lingua d’arrivo, senza alcun ricorso alla lingua di partenza. Nella lingua d’arrivo, cioè con i soli mezzi della lingua d’arrivo, non quelli della lingua di partenza, né le interferenze di una mostruosa via di mezzo, perché questa infrangerebbe il codice della lingua d’arrivo. Ma cos’altro faceva la Vulgata di san Girolamo? La correttezza è l’obiettivo ossessivo del traghettatore. Il linguaggio d’arrivo, di conseguenza, è un linguaggio acquisito, conosciuto, passivo, già trasformato. È la sua contraddizione più forte con l’opera letteraria, che è tale solo se è, e resta, un linguaggio attivo, trasformatore. Trasformatore delle opere precedenti, dei modi di rapportarsi con il mondo e dei soggetti tra di sé e con sé.
Il primo e ultimo tradimento che la traduzione può commettere nei confronti della letteratura è togliergli ciò che ne fa letteratura – la sua scrittura – con l’atto stesso che la trasmette. L’adagio “traduttore traditore” indica da secoli che la traduzione è il luogo di un conflitto definito da due paradigmi irriducibili l’uno con l’altro. La traduzione è nel solco che oppone l’autore originale al traduttore come l’invenzione alla riproduzione, l’autentico all’edulcorato, la lingua di partenza alla lingua d’arrivo come due mondi non sovrapponibili, l’indissociabile e misteriosa associazione della forma e del senso nell’originale alla pietosa dissociazione delle due, per conservare solo il senso, nella traduzione. Questa situazione, lungi dall’essere vista come un effetto delle concezioni del linguaggio, è stata ed è ancora considerata un fatto di natura. Che il buon senso è tenuto a riconoscere e accettare. Così, davanti alla scelta tra mostrare la traduzione per quello che è, una traduzione, e nascondere questa vergogna, il traduttore è stato addestrato a cancellare tutto ciò che mostra che è una traduzione. Il traduttore cerca la naturalezza.
La naturalezza della lingua d’arrivo, ciò che normalmente deve raggiungere il buon traduttore, presuppone un atteggiamento pragmatico verso la comunicazione, che sembra il buon senso in persona. Il paradosso è che così si realizza e perpetua, senza saperlo, il mito di Babele. Perché la naturalezza cerca di sopprimere la differenza delle lingue, ne fa qualcosa da nascondere, e questa differenza occultata ribadisce la diversità delle lingue come il male mitico del linguaggio. Ogni lingua d’arrivo è, perciò, al tempo stesso l’ordine naturale e la trascendenza delle particolarità. Quello che ingenuamente mostrava per il francese, ai tempi del suo regno europeo, la grammatica di Port-Royal, e ai nostri giorni la grammatica generativa per l’inglese, struttura profonda di tutte le lingue, e accompagnamento teorico della sua egemonia culturale. […]
Henri Meschonnic, «Traduire la littérature», in Poétique du traduire, Editions Verdier, 1999, pp. 86-88.