In avanti e all’indietro

[Per smuovere un po’ il sito, non avendo nulla di davvero nuovo, corposo e significativo da proporre, un post ripreso di peso dal vecchio e glorioso fogliedivite, dai tempi in cui forse si riusciva ancora a elaborare qualche pensiero esteso, sottraendosi a quel profluvio di “pensierini-ini-ini”, immagini perlopiù banali, like e retweet che presto sarebbe invece diventato la modalità d’espressione prevalente sui social e in genere sul web.]

«La vita può essere capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti», pare che sostenesse il filosofo danese Søren Kierkegaard. Pare, perché è una citazione di cui non so fornire gli estremi, malgrado la marea di occorrenze su internet, avendola incontrata per la prima volta leggendo il romanzo Preparation for the Ascent di Gilbert Rogin, in una formulazione leggermente più articolata:

‘Do you agree with Kierkegaard when he says, “It is perfectly true, as philosophers say, that life must be understood backwards. But they forget the other proposition, that it must be lived forwards. And if one thinks over that proposition it becomes more and more evident that life can never really be understood in time, simply because at no particular moment can I find the necessary resting place from which to understand it—backwards”?’
‘Shirr.’

Fatto sta, nell’una come nell’altra versione, c’è molto del vero. Del resto, se anche fosse possibile trovare quel punto fermo da cui guardare e capire la vita all’indietro, non sarebbe sempre troppo tardi per rettificare qualcosa? Allora, cerchiamo quanto più di guardare e vivere la vita in avanti, pena un poco esaltante se non rovinoso immobilismo.

Immobilismo che, in pratica, è anche il tratto che più caratterizza il protagonista dei due romanzi di Gilbert Rogin ripubblicati in tandem nel 2010: What Happens Next? e il già citato Preparations for the Ascent.

Al riguardo, ad aprile del 2011, terminata la lettura, avevo sbrigativamente formulato il seguente parere:

Come prima nota, direi che i due romanzi non costituiscono una lettura trascinante, che ti tiene cioè incollato alla pagina, ininterrottamente, fino alla fine; ciò malgrado, e anche procedendo a un capitolo alla volta, non ti viene mai veramente a noia, sicché sei spinto comunque ad arrivare in fondo. Questo, forse, è anche dovuto al fatto che – come si legge nell’introduzione – i due romanzi sono almeno in parte un assemblaggio di pezzi già usciti singolarmente come racconti per il «New Yorker» e altre riviste. E come i racconti, anche i due romanzi possono essere visti come una continuazione l’uno dell’altro: cambiano i nomi dei personaggi (nemmeno di tutti, in realtà), ma la storia e l’ambientazione restano fondamentalmente gli stessi: la dissoluzione di un matrimonio, a Manhattan, tra un giornalista-scrittore ebreo 30-40enne e una donna (cattolica, per quel che è dato di capire) già divorziata e madre di due figli, un maschio e una femmina, il primo dei quali un po’ problematico e di cui, nel finale del secondo romanzo, verremo a sapere che si è suicidato. A contorno ci sono le varie relazioni che l’uomo intrattiene con altre donne (nel secondo romanzo, dopo il divorzio dalla moglie, ne resterà sostanzialmente una sola, prolungata, ma avviata anch’essa a finire); il rapporto che la moglie continua ad avere con il precedente marito, senzatetto e spesso ospite in casa della coppia (nel secondo romanzo, dopo il nuovo divorzio, i due torneranno di fatto a vivere insieme nell’appartamento due piani sotto quello del protagonista); il rapporto dell’uomo con i suoi genitori, oggetto di ripetuti siparietti, soprattutto in relazione a pranzi o cene in comune; e quello con il suo analista.

Come seconda nota, spicca l’assenza di una trama ben definita, lineare; per meglio dire, si avverte un’evoluzione della storia, ma è più lasciata all’intuito del lettore che esplicitamente dichiarata. Per contro, ci sono tante situazioni che sembrano ripetersi più o meno immutate, malgrado il passare degli anni di cui si ha conto attraverso il progressivo aggiornamento dell’età del protagonista: dai 35 ai 48 anni. Tutto questo per mettere forse il risalto il carattere “immobilizzato” e astratto dell’uomo: un intellettuale eclettico ed eccentrico (molte e variegate sono le sue citazioni, per esempio), attento osservatore del mondo che lo circonda e ilare commentatore, ma segnato al fondo da tristezza e, appunto, immobilismo e scarsa reattività emotiva.

Il paragone più immediato che viene alla mente è con certi film di Woody Allen; in subordine, ci possono stare anche echi di autori ebrei americani come Philip Roth o canadesi come Mordecai Richler. Lo stile di Rogin ha però un carattere distintamente suo; non credo che si possa cioè parlare di imitazione. Nella sua scrittura introduce anzi elementi che si possono definire innovatori e in anticipo sui tempi, tali nel complesso da non far sentire superati questi due romanzi rispettivamente del 1971 e 1980.

Questo mi porta a concludere che, sebbene sia improbabile poter effettuare con Rogin un’operazione di recupero e rilancio come quella avvenuta con una Paula Fox (il problema, più che altro, è l’eseguità della produzione letteraria: a meno di libri tenuti nel cassetto, infatti, a parte questi due romanzi esiste solo una raccolta di racconti), una sua lettura è senz’altro consigliata.

Ultima osservazione: un’eventuale traduzione italiana non sarebbe probabilmente delle più facili (Rogin gioca molto con la lingua, oltre a far sfoggio di un certo enciclopedismo), ma in ultima analisi nemmeno impossibile.