Radiohead: seri, introversi, inquieti. Unici

Di ieri, 1 maggio, la “sparizione” dal web del gruppo britannico dei Radiohead, con lo svuotamento dei contenuti dei loro profili social e del sito internet. In attesa di capire cosa si celi dietro questa enigmatica decisione, il pensiero va in automatico a quando nell’ottobre 2000 – bei tempi quelli, sul serio – ebbi la fortuna di tradurre per «Internazionale» un lungo pezzo su di loro scritto da Gerald Marzorati, per il «New York Times Magazine», in occasione dell’uscita di Kid A, il quarto album in studio, molto sperimentale, dopo il successo strepitoso di Ok Computer, tre anni prima, pietra miliare della musica rock anni novanta. Sull’onda del ricordo, pubblico allora l’intera traduzione.

«Internazionale», n. 357, 20 ottobre 2000, pp. 20-27.

Una band per il Duemila

Quarant’anni dopo i Beatles, i Radiohead hanno inventato una nuova idea di gruppo rock

GERALD MARZORATI, THE NEW YORK TIMES MAGAZINE, STATI UNITI

I Radiohead sono una band importante in un periodo difficile per le band importanti. Il gruppo prende il nome da una canzone dei Talking Heads: già questo la dice lunga sulle sue aspirazioni e anche su come ogni band ambiziosa oggi non possa evitare di fare i conti con il passato. I Radiohead stanno facendo musica mentre l’epoca delle band sembra vicina alla fine, un periodo in cui quanto c’è di più nuovo e originale nella musica pop viene prodotto non da gruppi di ragazzi che suonano la chitarra e scrivono i testi delle loro canzoni, ma da deejay e da team di produzione guidati da una o due persone armati di giradischi, computer e dei più disparati congegni elettronici. È un periodo in cui si ha la sensazione di una rivoluzione copernicana nella musica leggera di massa: dal pop-rock verso l’hip-hop, la dance e quella che negli Stati Uniti viene chiamata genericamente musica elettronica. Sono passati quasi quarant’anni dall’ultimo grande cambiamento, che fu segnato dall’avvento della prima band importante: i Beatles, di cui i Radiohead parlano in continuazione.

Una voce splendida

I Radiohead stanno affrontando il cambiamento radicale che investe la musica pop in un modo completamente diverso dai nuovi gruppi rap-metal come i Limp Bizkit, i cui album dominano le classifiche americane da due anni: gruppi che hanno preso gli aspetti peggiori dell’hip-hop degli afroamericani – testi misogini e ritmi monotoni – fondendoli con il sentimentalismo dell’heavy metal dei bianchi. I Radiohead sono un quintetto. Si sono conosciuti quindici anni fa alla Abingdon Scholl, nell’Oxfordshire. Non sono arrabbiati né disperatamente alienati, ma seri, introversi e inquieti. Soprattutto Thom Yorke, il cantante solista. Yorke possiede una delle voci più delicate che abbiano mai impreziosito un disco pop: uno splendido falsetto dall’aria vagamente operistica. In definitiva è la sua voce il vero marchio di fabbrica delle canzoni dei Radiohead.

Yorke è anche il principale autore dei testi e il motore del gruppo, o come spiega lui: “Noi operiamo come le Nazioni Unite. Io sono l’America”. Quando nel settembre scorso mi sono unito alla band per alcuni giorni in occasione di un paio di concerti a Copenaghen, per un certo tempo Yorke si è rifiutato di parlare con me. A volte decide di non parlare neanche con gli altri componenti del gruppo, cosa che li innervosisce sempre. “Thom può essere piuttosto duro con le persone”, dice Nigel Gondrich, il giovane produttore della band, scegliendo le parole attentamente, senz’altro per non rendere la sua situazione ancora più difficile.

Tre anni fa i Radiohead risposero alla fine incombente del rock legato all’album vecchio stile, saturo di chitarre e di testi molti densi, realizzando Ok Computer, un concept album in perfetto stile anni Settanta, imbottito di melodie ampie e trascinanti, chitarre rigorose, tempi insolitamente irregolari, melanconici accordi in minore e cambiamenti atonali.

Per non dire dei testi elaborati e vagamente da incubo, che parlano di un mondo di disastri tecnologici, di conformismo ipercapitalista e situazioni che cambiano così rapidamente da non lasciare più il tempo per ascoltare album di bellezza crepuscolare come Ok Computer (se Underworld di Don DeLillo fosse un disco rock avrebbe il suono di Ok Computer).

Idoli della critica

Praticamente tutti i maschi bianchi brizzolati che dirigono le riviste musicali e scrivono le recensioni degli album rock ascoltando i dischi con le cuffie molte volte di seguito hanno salutato Ok Computer come un capolavoro. Ma è piaciuto anche a molta altra gente: è stato candidato ai Grammy Awards come album dell’anno, e fino a oggi ha venduto in tutto il mondo più di quattro milioni e mezzo di copie. A uno dei concerti del gruppo a cui ho assistito, una buona metà della folla incantata di spettatori – quasi tutti studenti dall’aria di sinistra e alla moda – si è messa a cantare ad alta voce la canzone più strana dell’album, Paranoid Android. È un pezzo che comincia con le parole “Potresti smettere di fare rumore sto cercando un po’ di riposo / da tutte le voci di pulcini mai nati nella mia testa” e culmina sei minuti più tardi con un meditabondo coro russo.

I Radiohead hanno appena pubblicato il loro nuovo album, il quarto. Nell’industria discografica – che sull’onda del successo di Ok Computer si è precipitata a scritturare gruppi simili ai Radiohead (come Travis, Coldplay, Muse) – questo nuovo disco ha creato un’attesa come non si vedeva da anni. Un ruolo non piccolo lo ha svolto la strategia di lancio aggressivamente passiva del gruppo: i Radiohead non hanno voluto far uscire nessun singolo promozionale per la radio e nessun video, anche se Mtv ha mostrato brevi “pillole” fornite dal gruppo con estratti sonori dall’album. Intitolato Kid A, il nuovo disco non è un concept album ma, come il precedente, è di quelli da ascoltare con le cuffie.

Kid A ha una sola canzone autenticamente rock, Optimistic: il suono ricorda i Rem, un gruppo la cui musica e il modo molto equilibrato di essere rockstar hanno avuto un’influenza notevole sui Radiohead sin dagli inizi. Per quanto riguarda le altre nove canzoni, invece, molte non hanno una struttura di strofa e ritornello. La maggior parte si adagia su interferenze create al sintetizzatore o catturate dalla radio, e quasi tutte hanno testi angosciati, dal tono incantatorio o inflessibile, basati su frammenti che potrebbero essere usciti dal cappello dadaista di Tristan Tzara. Malgrado il carattere ricercato di gran parte dei brani, non è musica “difficile”, soprattutto perché i tessuti sonori che i Radiohead hanno imbastito per le canzoni sono sempre molto evocativi e avvincenti. Suoni che arrivano dal passato – un armonium, un contrabbasso, un’arpa – fluttuano e si dissolvono tra gorgoglianti pulsazioni elettroniche, parti di cantato registrate e riversate a ciclo continuo, riff di chitarra e tastiere manipolati al computer.

È un complesso palinsesto sonoro le cui delizie emergono lentamente, concentrate nelle asperità dei passaggi e nelle pause. Per esempio, nel brano che dà il titolo all’album – il nome è tratto da un software audio per bambini – un’incantevole scultura musicale viene costruita intorno al motivo di un carillon d’altri tempi: una batteria jazz tagliata e incollata; una melodia vocale da grammofono strapazzata e alterata da un vocoder; e una base acquosa prodotta con le onde Martinot, un protosintetizzatore usato dal compositore francese Olivier Messiaen, molto amato da Jonny Greenwood, chitarrista solista del gruppo e sperimentatore con le tastiere.

Guardando i Beatles

Colin, il fratello maggiore di Jonny, è il bassista. Perfino in una band che in albergo si rilassa bevendo un bicchiere di vino e discutendo preoccupata delle concentrazioni in atto nell’industria editoriale britannica, Colin spicca come l’intellettuale del gruppo (ha studiato inglese a Cambridge). Una mattina, mentre chiacchieravamo seduti nei giardini del castello di Rosenborg, a Copenhagen, gli ho chiesto come fosse nato Kid A. Ha riflettuto per qualche istante, poi ha citato Leonard Bernstein secondo cui il processo di creazione musicale è intessuto di ambiguità e cancellazioni. Mi ha spiegato molto prosaicamente che durante le sedute di registrazione di Kid A ci sono stati dei momenti in cui il gruppo sembrava essere sul punto di sciogliersi.

Alla fine ha concluso: “Insomma, tutto il problema si riduce a trovare un nuovo sound. Prendi i Beatles, per esempio: a ogni album tiravano fuori un nuovo approccio. Ascoltavano un mucchio di roba, poi la portavano nella loro musica. Lavoriamo così anche noi. Ma naturalmente loro erano agli inizi e hanno inventato come si poteva fare”. Colin si è interrotto per qualche secondo, poi ha ripreso: “Noi lavoriamo insieme da quindici anni, una cosa rara – soprattutto tra maschi, se ci fai caso. Ma è sempre più difficile creare qualcosa di nuovo. Non solo per noi, ma per tutti, si direbbe”.

Le vendite sorprendenti di Ok Computer in parte potrebbero essere state stimolate dalle lodi della critica, ma più probabilmente sono dovute al grande impegno del gruppo stesso, che per un anno e mezzo è stato ininterrottamente in tour per tre continenti a promuovere l’album. È sempre stato così che una band è diventata veramente grande, ed è una fatica terribile. Naturalmente solo un gruppo con grandi ambizioni può mettersi on the road in questo modo. Ma a Thom York non piace la parole “ambizione”. “Una volta eravamo ambiziosi”, ha detto quando ho sollevato l’argomento. “Ma in ogni caso cosa significa l’ambizione?”.

Ho portato la questione su un terreno leggermente diverso: la fama e il successo ottenuti con il lunghissimo e snervante tour di Ok Computer hanno regalato ai Radiohead un livello nuovo di libertà e controllo? “Si può dire che abbiamo guadagnato il privilegio di fare le cose a modo nostro”.

Poi ha sorriso, con un’aria leggermente imbarazzata. Yorke dà l’impressione di uno che ha sviluppato una certa dose di superbia per ottenere i risultati estetici che desidera; e anche per proteggere la sua immagine di artista da tutto ciò che si muove intorno all’industria dello spettacolo. Ma in lui c’è anche una dolcezza da ragazzino e quel senso tutto inglese delle buone maniere a cui Orwell dava tanta importanza e che vale anche per gli altri componenti del gruppo: ti tengono aperta la porta, s’informano sullo stato di salute e l’umore dei tecnici, fuori dell’albergo firmano autografi anche sotto una fredda pioggerellina, come fosse la cosa che più amano fare, e dicono “Sorry” per tutto. “Scusami”, mi ha detto Yorke. È rimasto silenzioso un attimo, poi ha proseguito: “Sappiamo molto sulle band, sui tour interminabili e su ciò di cui si ha bisogno per essere una grande band alla fine di tutto questo. Ma gli ultimi mesi del tour di Ok Computer sono stati un grosso sbaglio. Abbiamo sempre avuto l’idea che la cosa bella di essere in un gruppo fosse l’intesa, il mantenere vivo l’interesse tra noi: tutta roba che non puoi fare stando da solo in una camera da letto. Invece in quei giorni pensavo: ‘Al diavolo questa band!’. Era terribile”.

Tour in tenda

Yorke, 31 anni, più o meno l’età media dei componenti dei Radiohead, stava sorseggiando del vino bianco seduto su un divano nei camerini della band dopo uno dei concerti di Copenhagen, una delle prime tappe di un breve tour europeo completamente diverso da quello di Ok Computer. Poiché i Radiohead non possono soffrire né l’acustica né l’atmosfera delle grandi arene, ogni concerto si è svolto sotto un enorme tendone, realizzato su misura e montato in un grande parco cittadino. Un’operazione che ha richiesto decine di tecnici specializzati al seguito, non solo per montare e smontare il tendone color indaco, ma anche per personalizzare il suono e i sistemi d’illuminazione. Questa squadra, così come la band e i suoi stretti collaboratori – i manager, il “tecnico della chitarra” e così via – avevano i pasti preparati da un’équipe di catering che ogni mattina trovava il tempo di fare la spesa al mercato per poi cucinare una ricca cena con molte portate. In mattinata e nel primo pomeriggio i membri della band avevano quasi sempre del tempo libero per leggere o passeggiare. Nel tardo pomeriggio si riunivano sotto il tendone per un breve soundcheck. I Radiohead salivano sul palco un po’ in anticipo rispetto agli standard dei concerti rock, intorno alle otto e mezza di sera, dopo l’esibizione di un gruppo spalla (a Copenaghen era una pretenziosa band islandese chiamata Sigur Ros), e per le undici era tutto finito. “Thom non voleva più lavorare senza sosta”, ha spiegato Colin Greenwood. “La gente continua a essere dell’idea che i gruppi non fanno un lavoro duro, forse non vogliono ammetterlo perché noi facciamo parte del loro tempo libero. Ma credimi, è faticoso”.

I due concerti di Copenaghen sono stati molto sperimentali: pieni di energia, impegnativi e a momenti meravigliosi, come quando, su una canzone del nuovo album, Jonny Greenwood ha “suonato” una radio a transistor come fosse una chitarra elettrica, o quando, su un’altra canzone nuova, lui e l’altro chitarrista della band, Ed O’Brien, si sono messi a smanettare con i campionatori catturando la voce di Thom Yorke e strane variazioni al piano elettrico e facendoli roteare e riecheggiare tra la folla come ascetici canti gregoriani. “In un certo senso quella canzone è concepita come un esperimento”, ha detto Yorke più tardi. “Mi piace che sia diversa ogni sera. Mi annoio. Sono stanco del rock. Tu no?”.

Teenager troppo seri

In una mattina di settembre ho attraversato in macchina Abingdon, una deliziosa cittadina inglese, e poi sono andato alla Abingdon School, con le sue costruzioni vittoriane di mattoni rossi, le siepi ben curate e gli studenti in blazer e cravatta del college, riuniti su un bel prato. A farmi da guida c’era Chris Hufford, uno dei partner della consolidata struttura organizzativa dei Radiohead, il Courtyard Management. Mentre lui parlava di come suo figlio avesse preferito non andare ad Abingdon – Hufford e i suoi colleghi hanno gli uffici nel vicino villaggio di Sutton Courtenay – io non riuscivo a staccare gli occhi dagli studenti di quella public school, sconcertato all’idea che solo alcuni anni fa tra di loro c’erano i membri della band probabilmente più significativa di oggi.

Alla Abingdon School Colin Greenwood studiava chitarra classica, Selway percussioni, Yorke aveva scritto l’accompagnamento musicale per una produzione di Sogno di una notte di mezza estate, mentre Jonny Greenwood suonava la viola in una orchestra giovanile locale. I futuri Radiohead si misero più o meno insieme, su iniziativa di Yorke, in una sala prove della scuola.

Il successo ha portato con sé la pubblicazione di almeno tre biografie della band: in ognuna di esse lo stimolo alla formazione del gruppo e anche le oscure modalità compositive dei suoi testi e della sua musica sono fatte risalire all’infanzia di Yorke e a una serie di dolorose operazioni al suo occhio sinistro, affetto da ambliopia. Gli interventi non solo non sono riusciti a correggere il difetto, ma gli hanno fatto peggiorare la vista e causato un leggero abbassamento della palpebra, motivo di continue prese in giro da parte degli altri ragazzi (ad Abingdon era soprannominato “salamandra”).

Fondamentalmente, però, le radici dei Radiohead non sono molto diverse da quelle delle innumerevoli band venute prima di loro: gli piaceva stare insieme, erano un gruppo affiatato, condividano la passione per alcuni dischi – soprattutto quelli di gruppi come i Rem e i Pixies – e pensavano che fare musica fosse il modo migliore per cementare la loro amicizia.

“La cosa davvero strana è la serietà con cui prendevo la faccenda”, ha ricordato Ed O’Brien mentre parlavamo un pomeriggio. “Lo facevamo tutti”, ha subito corretto Jonny Greenwood. Eravamo insieme a bere una tazza di caffè in un bar vicino al loro albergo di Copenaghen, prima che andassero sotto il tendone per il soundcheck.

Greenwood: “Partivo per il college e pensavo: ‘Speriamo che questa settimana non sia troppo dura, perché nel fine settimana devo tornare a casa per provare con il gruppo’. Voglio dire che il gruppo è tutto quello che faccio – è la mia vita – da quando avevo tredici anni”.

O’Brien: “Ad Abingdon provavamo, registravamo la prova, ascoltavamo il nastro della prova, provavamo ancora…”.

Greenwood: “Sì, raramente suonavamo per qualcuno”.

O’Brien: “Non piacevamo a nessuno, tranne a noi”.

Greenwood: “È vero”.

O’Brien: “Quando partivo per il college facevo sentire qualche nastro alle persone con cui viaggiavo – sai, la band era la mia ragion d’essere – e mi rispondevano con certi sguardi come a dire: ‘Continua a studiare’”.

Greenwood: “Eravamo così seri”.

O’Brien: “Ci ritrovavamo in una specie di pub ad Abingdon – un posto incredibilmente noioso per dei ragazzi allora sui 16 o 17 anni – e discutevamo di cosa avremmo voluto fare.

Greenwood: “Sì, se ci pensi…”

O’Brien: “Oh-oh, banalità in arrivo…”

Greenwood: “In realtà penso che volessimo semplicemente fare un disco”.

O’Brien: “Molto di più”.

Alla fine degli anni Ottanta, mentre era alla Exeter University per studiare lettere, Thom York scrisse una canzone intitolata Creep (sfigato). È su un tipo sempre ubriaco, che non si piace, a cui basta la vista di una bella ragazza per andare in crisi e anche peggio. Alla fine dell’estate del 1992 i Radiohead erano in studio per realizzare un singolo: la canzone venne registrata quasi per caso, ma i produttori applaudirono. Un singolo di quattro brani – la loro prima incisione dopo aver firmato un contratto con l’etichetta inglese Parlophone, di proprietà della multinazionale Emi – era stato lanciato sul mercato britannico alla fine del 1991, ma era andato malissimo. Le cose non andarono in maniera molto diversa con Creep.

Ma la storia non finisce qui. Il responsabile della programmazione musicale di una radio universitaria dell’area di San Francisco trovò il disco sullo scaffale delle novità d’importazione di un negozio di dischi di Berkeley e lo inserì tra i brani in programmazione. Nel giro di qualche settimana divenne uno dei pezzi underground più ascoltati in tutta la costa californiana. Creep fu inclusa nel primo album dei Radiohead – Pablo Honey, pubblicato nel febbraio 1993 – e fece entrare il disco nelle classifica. Di Creep venne anche incisa una nuova versione censurata, eliminando le esclamazioni oscene, affinché potesse essere programmata sulle stazioni rock statunitensi. Alla fine dell’estate 1993 Creep era un successo in tutti gli Stati Uniti: il nuovo inno dei giovani slacker istruiti, antimaterialisti e apatici, dopo Smell Like Teen Spirit dei Nirvana e Loser di Beck.

I Radiohead andarono in tour negli Stati Uniti e ovunque ragazzi in camicia di flanella richiedevano a gran voce Creep, ma spesso se ne andavano dal concerto subito dopo che la band l’aveva eseguita. Il nuovo singolo fu un fiasco. Alla fine del 1993 i Radiohead non interessavano più a nessuno.

Ai concerti i ragazzi chiedono ancora Creep, il che è indicativo di quanto sia importante un singolo di successo nel costruire una base di ammiratori. D’ora in avanti i Radiohead non suoneranno più Creep nei loro concerti: quando ho parlato di questo con Yorke, ha criticato aspramente le radio americane e i moderni dj rock, che l’hanno letteralmente tormentato con domande se il “creep” della canzone fosse lui e che cosa i suoi genitori o qualcun altro gli avessero fatto per farlo diventare così. “Non puoi immaginare quanto fosse orribile”, mi ha detto. “Essere trattato come se quello dovesse essere per forza il tuo unico successo. Dopo un po’ finisci per crederci. Sai che non è così, ma non c’è niente da fare. È un’idea che mi ha perseguitato a lungo”.

Verso lo scioglimento?

Il nuovo album è nato non lontano da Abingdon, in un complesso di vecchi fienili in pietra che il gruppo ha convertito in Radiohead Central, con studi di registrazione, sale computer, aree per incontri e camere da letto. Kid A, comunque, non è stato partorito in modo semplice. Per la realizzazione dei precedenti lavori la procedura era più o meno questa: Yorke abbozzava alcune canzoni che venivano aggiunte a quelle rimaste fuori dalle precedenti incisioni. Quindi il gruppo si riuniva e provava a suonarle: ciascun componente si ritirava per un giorno o due in un angolo e sviluppava la sua parte per una canzone o un’idea per un arrangiamento. Durante queste prove c’era anche il tempo per ascoltare i dischi da cui ciascun membro del gruppo in quel momento era affascinato.

“È come se tu ascoltassi qualcosa e dicessi agli altri: ‘Puntiamo a questo… questo suono’”, mi ha spiegato Jonny Greenwood. “Puoi farlo, sapendo che il tuo stile e i tuoi limiti ti impediranno sempre di arrivare esattamente a quel suono – così diceva John Lennon – ma alla fine arriverai a qualcosa di nuovo e di grande”. Greenwood ha anche confessato che la sua passione per Bitches Brew di Miles Davis ha molto influenzato Ok Computer.

Ancora prima che iniziassero a lavorare al nuovo album, O’Brien si era convinto che i Radiohead dovessero fare un disco tutto chitarre, una specie di ritorno alle radici, più vicino allo spirito del loro secondo album, The Bends. Quando a gennaio dello scorso anno lui e gli altri componenti del gruppo si sono riuniti per provare e cominciare le registrazioni in uno studio di Parigi – il nuovo complesso nell’Oxfordshire era ancora in costruzione – si sono resi conto che Yorke era di tutt’altra idea. Thom pensava che i gruppi con le chitarre non erano più sulla cresta dell’onda. Era più interessato alle nuove forme contemplative di hip-hop, come quelle realizzate da Dj Shadow a San Francisco. E aveva anche portato con sé a Parigi delle registrazioni dei primi anni Novanta degli Autreche e degli Aphex Twin, artefici delle rilassate trame sonore della scena rave. Gli altri componenti del gruppo non riuscivano a seguirlo.

“Era abbastanza stupefacente”, ha ricordato di recente Nigel Godrich, seduto dietro un mixer in uno studio di St. John Wood, a Londra. “Insomma, i Radiohead sono una band chitarristica di prim’ordine. Thom, invece, voleva un suono che non c’entrava niente con un gruppo rock”.

Il gruppo ha lasciato Parigi senza aver concluso niente, per poi riunirsi a Copenaghen alcune settimane dopo. Thom aveva portato con sé decine di nuove canzoni, per lo più abbozzi. Godrich ricorda che parlava pochissimo con tutti. Per O’Brien quelle due settimane a Copenaghen furono “orrende”. Ad aprile il gruppo ci ha provato di nuovo, questa volta in una tenuta di campagna nel Gloucestershire. Ci sono state riunioni piene di tensione. Alla fine hanno deciso che la band non si sarebbe sciolta. Ripensando a quei giorni Phil Selway, il pacato batterista, dice: “Probabilmente per la prima volta non avevamo niente contro cui scontrarci come gruppo, così ci scontravamo l’uno con l’altro”.

Solo all’inizio di quest’anno, con i Radiohead riuniti nei nuovi studi, l’idea che Yorke aveva in mente per il nuovo album ha cominciato a essere recepita da tutti. I componenti della band sono diventati più accondiscendenti all’idea di mettere da parte i loro strumenti, e a un certo punto dell’inverno si sono di fatto scissi in due gruppi in due locali separati: uno era incaricato di creare e registrare rumori e frammenti musicali senza usare né chitarre né percussioni, l’altro di rielaborare il materiale con i congegni elettronici e i computer dello studio. È maturato l’accordo che ci sarebbero stati brani in cui alcuni di loro non sarebbero apparsi. In un certo senso la nozione stessa di essere una band si stava evolvendo: ciò che ora contava di più erano i gusti e le idee. “Stavamo lavorando più come produttori che come musicisti”, dice Selway.

Alla fine della primavera avevano abbastanza materiale per due album. Questo ha dato luogo a un’altra tornata di travagliate riunioni per decidere quali brani dovessero comparire sull’album e in quale sequenza. “Nigel dice che lavorare con noi era come lavorare con cinque attori perfezionisti”, osserva Colin Greenwood. Poi, parlando dell’album, aggiunge: “Penso che in qualche modo siamo riusciti a piegare le macchine alla nostra volontà: questo è quel che abbiamo fatto come band. Ci siamo accostati alla nostra maniera, ingenuamente, senza leggere i manuali d’istruzioni: non ne abbiamo la pazienza. Alla fine è come aver creato una specie di falsa nostalgia che altri ottengono usando vecchi sintetizzatori degli anni Settanta e Ottanta”.

Niente concerti

Stranamente, è proprio così: i Radiohead hanno usato metodi modernissimi per ottenere una specie di futuristico manufatto del passato, un’opera bizzarra che rimanda al presente immediato e all’incombente esaurirsi del vecchio modello del gruppo rock.

Sfidando i sistemi tradizionali dell’industria discografica, il recente tour europeo dei Radiohead si è concluso prima della pubblicazione dell’album e non ci sarà nessun tour americano. Negli Stati Uniti la band apparirà in tv solo al Saturday Night Live e farà un concerto al Greek Theater di Los Angeles. L’unica presenza radiofonica sarà al Morning Becomes Eclectic, la trasmissione art-pop che la Kcrw, una stazione radio pubblica di Santa Monica, tiene la mattina, all’ora di punta del traffico automobilistico. Secondo gli addetti del settore, la rinuncia dei Radiohead alla strategia tradizionale per il lancio di un nuovo album rappresenta la trovata pubblicitaria più ingegnosa, a costo zero, dai tempi della copertina dei Beatles per il loro “album bianco”.

In una recente intervista Tony Wadsworth, presidente e amministratore delegato della Emi, non si è dilungato molto sull’argomento dell’intelligenza commerciale della band. Ma si è lasciato sfuggire: “Questi cinque ragazzi sono arrivati a un punto in cui non accetteranno mai di fare qualcosa che non hanno voglia di fare: non hanno intenzione di fare i commessi viaggiatori. Vogliono trovare nuove strategie per far circolare i loro dischi”.

I Radiohead pensano di pubblicare altre canzoni frutto delle recenti sedute di registrazione già la prossima primavera, sotto forma di album, di singolo con più pezzi oppure online. Hanno anche cominciato a discutere della possibilità, il prossimo anno, di andare in tour negli Stati Uniti con il loro tendone. Per il momento non si parla di un eventuale scioglimento. “Penso che un giorno saranno le nostre vite a separarci gli uni dagli altri, non i disaccordi estetici”, ha detto Colin Greenwood. “Penso che sapremo riconoscere il momento in cui sarà arrivato il momento di farlo”, ha detto Ed O’Brien. Thom Yorke, invece, si è espresso così: “Penso che porteremo a termine tutte le idee della band. E a quel punto ci scioglieremo”. (nm)