Il tempo (non) passa
Succede d’estate, puntualmente, che ci riproponiamo di leggere questo libro nuovo e quell’altro, comprati più o meno d’impulso negli ultimi mesi, quando non anni, e messi via, a prendere polvere, per mancanza di tempo o di voglia. Altrettanto puntualmente succede in realtà che ne facciamo ben poco di questo proposito. Come puntualmente succede invece che è qualche libro del passato in cui ci siamo imbattuti molto casualmente, su una bancarella dell’usato per esempio, a richiamare con maggiore forza la nostra attenzione e a reclamare di essere, se non letto da capo a fondo, sfogliato e campionato. E puntualmente, ça va sans dire, succede di pescare passi bellissimi e verissimi, che ti fanno mollare quello che stai facendo in quel momento e pensare: «Ma ancora pensiamo di essere superiori a chi ci ha preceduto? Ancora pensiamo di saperne e capirci davvero di più? Ancora crediamo che autori più o meno recenti, indifferentemente uomini o donne, aggiungano chissà che rispetto a quelli di un passato più o meno remoto, indifferentemente uomini o donne?» Prendi qua, Alba de Céspedes, in Quaderno proibito, anno di uscita 1952, pagato due euro in una bancarella dell’usato, in un’edizione Mondadori del 1964: in due paginette più e meglio di un moderno trattato di psicologia femminile o testo femminista, per dire.
Clara fumava sigarette americane, mi offriva cioccolatini da una scatola costosa che certo le era stata regalata. Ero stizzita con lei perché voleva ricacciare Michele in una vita che ella giudica mediocre e senza speranza. Le avevo detto ciò che lui stesso mi aveva suggerito di chiederle come se fosse una mia idea: «Non potresti provare a farlo lavorare con te, almeno una volta, in una sceneggiatura?». «Non è possibile» ha ribattuto lei «proprio per il suo bene, capisci? bisogna che non ci pensi più, che vada avanti come è andato avanti finora.» Era divenuta impaziente, ripeteva che non ha tempo, che la sua vita è una lotta continua perché, per una donna, è molto difficile farsi strada: diceva che ha dovuto acquistare una sorta di durezza. C’era qualcosa che mi sfuggiva nel suo discorso. Di nuovo ho avuto il sospetto che Michele sia innamorato di lei, ma il fatto che avesse mandato me a parlarle e l’umiliazione alla quale egli si piegava chiedendole con tanta insistenza di aiutarlo, lo hanno dissipato súbito. «Una donna che lavora» Clara continuava «soprattutto una donna della nostra età, porta sempre in sé la lotta tra la donna tradizionale che le hanno appreso a essere e quella indipendente che ha scelto di divenire. C’è un continuo conflitto in lei. Risolverlo, superarlo, costa: soprattutto nei riguardi degli uomini. Tu non puoi capire questo, forse. Tu hai un altro carattere e in fondo hai avuto tutto quello che ti eri proposta d’avere sposandoti: sei stata fortunata.» Le ho chiesto se lo pensasse davvero. «Oh, certo» ha esclamato, e continuava: «Io mi sentivo sempre debole di fronte a te, proprio perché non eri mai combattuta. Tu conducevi la vita che avevi scelto e io ti ammiravo perché eri sempre coerente con te stessa, sempre serena. Ricordo quando lavoravi a maglia, quando facevi i dolci per guadagnare. E ora hai tutto sulle tue spalle, lo so bene, la casa, l’ufficio. Non so come fai. Io non potrei essere tanto forte. O forse non riusciamo mai ad essere forti quando siamo soli, è la certezza di essere necessari agli altri che ci costringe ad essere forti. Comunque, bisogna avere la tua salute, per riuscire». Io ho detto che ero d’accordo per quanto riguarda la salute, ma ho tentato di accennare a tante altre mie debolezze e Clara mi ha interrotto: «No, no, credi di averle avute, ma ti sbagli. È inutile che cerchi di convincermi, sei sempre stata fortissima». Rideva di un riso arguto, giovane. Io avrei voluto dirle tutto, di Guido e di Venezia; arrivando da lei mi ero persino proposta di chiederle in prestito una valigia; e anche una delle sue vestaglie e un paio delle sue pantofole d’oro, le mie sono di felpa rossa, pesanti. Spesso provo il desiderio di confidarmi con una persona viva, non solo con questo quaderno. Ma non ho mai potuto; più forte del desiderio di confidarmi era il timore di distruggere qualcosa che sono andata costruendo giorno per giorno, in vent’anni, e che è il solo bene ch’io possieda. Clara mi parlava con calore: «Il fatto è che bisogna sempre avere uno scopo nella vita. Tu hai i figli. Chi ha uno scopo non ha bisogno della minuta felicità quotidiana; insegue quello scopo e rimanda sempre l’occasione di essere felice. Se anche non lo raggiunge, in quel tentativo è già lo scopo della sua vita e la felicità. In fondo è stato per questo che io ho cominciato a lavorare, più ancora che per il guadagno. Perché ero stanca di aspettare di essere felice a causa di un uomo, o di un altro. È questa speranza di felicità che logora una donna, giorno per giorno, la distrugge. Tu, aspettando che i ragazzi divenissero grandi, avevi la possibilità di dimenticartene. Aspettavi che camminassero, che andassero a scuola, che facessero la prima comunione, ora aspetti che prendano la laurea, che si sposino, no?, e intanto il tempo passa». «Già» ho ripreso io «il tempo passa.» Il tono della mia voce, l’espressione del mio viso dovevano sembrare inconsueti perché Clara mi ha domandato che avessi. Avrei voluto dirle che ormai i ragazzi sono grandi, io non ho più nulla da aspettare. Invece, alzandomi per andarmene, le ho detto con un sorriso: «Nulla. Pensavo, appunto, che il tempo passa».
Alba de Céspedes, Quaderno proibito, Mondadori, 3a edizione «I libri del pavone», Milano 1964, pp. 186-188.