Ha un retrogusto amaro gennaio, il sapore di una lunga convalescenza. Per questo concilia forse la lettura, lo stare distesi, in casa. Così dicevi nel gennaio 2010. Tre anni dopo confermi, aggiungendo che senza neve è un mese ancora più fiacco e inerte, ancora più sospeso e interlocutorio, tutto da (ri)letture, (ri)scritture, (ri)ascolti e (ri)pensamenti. Insomma, l’ideale per (ri)illuderci che da un anno all’altro non cambi mai nulla. Nulla di significativo, profondo, drastico, irreversibile. Proprio così, no?
Leggendo, leggendo, la mente a volte s’inceppa e scricchiola, poi piano riprende il flusso.
Repentine, spiazzanti accelerazioni poi lievi, pacati colpi di freno e… suadente, religioso silenzio.
Absent-minded. Sweet cathartic silence, with distorted guitar sounds.
Il poco tempo che ci è dato di esistere troppo spesso fugge via colpevolmente senza quasi neanche accorgersene di quanto sia incommensurabile essere.
Qualcosa di noi sempre ci sfugge.
Fuggevole l’estate della vita, fuggevole l’andare, fuggevole l’essere qui.
Questi convulsi anni in rete… non che alla fine si salvi molto… un po’ come tutto il resto.
Eravamo isolati, la rete ci ha avvicinati e uniti, poi, per mancanza troppo spesso di un contatto diretto, a fasi alterne ci ha anche rinchiusi, rabbiosi, in noi stessi.
Again and again, what a terrific waste of time all this browsing and searching and quoting and linking.
C’è un limite alle parole, al numero delle parole che la mente può gestire ogni giorno ascoltando, parlando, leggendo, scrivendo, traducendo. Sopra ogni altra cosa, scrivendo e traducendo. Così, volta per volta, una componente linguistica sottrae spazio all’altra, depotenzia e squilibra l’altra.
Ti accorgi, col tempo, che dire di no, anche a fronte di una richiesta praticamente impossibile da soddisfare, ha sempre un risvolto per qualche verso negativo. Dicendo di sì crei un rapporto – lavorativo, affettivo, d’amicizia ecc. – o gli dai modo di rinsaldarsi. Dicendo di no lo raffreddi, lo blocchi sul nascere o non gli permetti di evolvere; lasci intendere che non vuoi investirci sopra o, comunque, non più di tanto, ovvero senza sacrificare nulla di significativo; in altre parole, fai capire che hai altre priorità. E pur essendoci modi e modi di dire di no, all’atto pratico quel diniego ha sempre un suo costo: un diradarsi dei contatti, un (ri)allontanarsi, un tornare a ignorarsi.
Dimenticare e dimenticarsi, e riscoprire l’infinita bellezza che è intorno.
Regolarità e costanza: anche di poco, quando non gira, ma ogni giorno bisogna portarsi avanti.
È faticoso, ma alla fine una regola bisogna pur darsela. Alla fine.
L’ossessione è di quelle dure a morire: rivedere, ritoccare, correggere, prima aggiungere, poi tagliare, cancellare o spostare. Arrivare alla giusta misura.
Di quiete è ricolma la sera, di silenzio e di assenza.
Un po’ come noi, le tracce sulla neve, di qua e di là, di vita breve, storie da dipanare.
I dettagli sono tutto, ha detto e scritto più di qualcuno, e c’è da credergli. La natura, per conto suo, lo sa e mette in pratica da sempre, e noi possiamo solo restarne ammirati.
È quello che non sai che può crearti un fremito vivo. Quello che già sai uccide in partenza ogni entusiasmo, ogni poesia, ogni stupore. La verità è che abbiamo fame di imprevisti, di cambiamenti magari dell’ultimo momento; meno di previsioni certe, puntualmente verificate.
Perso lo smalto, perso lo slancio, perso l’afflato, perso l’incanto. Persi il bisogno, l’ingegno, il ritegno; rimasti l’indegno e lo sdegno.
Non c’è quasi più niente, / più niente che funzioni. / Stiamo andando a rotoloni. // Nell’ex paese risplendente / un vero branco di pecoroni / mentecatti intrallazzoni. // Da non credere un bel niente / quando parlano sti zozzoni, / sapienti dei miei coglioni.
Iniziare a detestare tante, troppe cose, ed essere molto meno concilianti di un tempo, ribaltando l’idea che con l’età si diventi più tolleranti.
Accumulare grande rabbia nella testa, e di riflesso nel corpo, non è mai un bene, non rende mai orgogliosi e felici di sé. Ma è quello che spesso ispirano i tempi.
Essere proprio messi male finendo sempre più di frequente per avere nostalgia di persone e cose di tempi in cui già eravamo messi male.
Verrà quel giorno – o magari già è stato – in cui ci diremo che non c’abbiamo mai capito un ciufolo nella vita. E sarà quel che sarà.
L’impressione ricorrente di avere in tanti, troppi, buttato gli anni migliori della vita – e forse di tutta la storia – collezionisti spesso di piaceri mediocri e lamentazioni stucchevoli.
Possiamo e sappiamo lamentarci à gogo, mettendoci a esaminare con estremo puntiglio tutto quello che non va nella nostra vita, nel nostro paese e in generale nel mondo. Epperò, pensandoci meglio, a quanti momenti storici, a quante piccole e grandi rivoluzioni abbiamo avuto la ventura di assistere nel giro di trenta, quarant’anni. Solo dall’89 in poi, è successo di tutto e di più. Non sempre in meglio o in modo indolore, è chiaro; ma dire che siano stati anni scialbi e noiosi, privi completamente di fascino, sarebbe dire una bestemmia.
Però, che senso di sconfitta – accanto alla nausea – ritrovarsi vent’anni dopo né più né meno (in realtà, per tanti aspetti peggio) che nelle condizioni di crisi politico-istituzionale-economico-sociale-culturale (e forse anche individuale) e nel clima generale di incertezza e confusione di un periodo che (somma illusione!) credevamo di esserci lasciati alle spalle. Con l’aggravante che se a 20-30 anni sei ancora nel pieno delle energie e degli slanci entusiastici, a 40-50 cominci a essere quasi solo un pieno di acciacchi, problemi, abbattimenti; perciò, molto meno disposto a chiudere un occhio e pensare che sì, ci vorrà tempo, ma in un modo o nell’altro la situazione si sistemerà. No, non è più il decennio – gli anni novanta – del “in qualche modo”. Né è più il tempo in cui bastava rifugiarsi in qualche brano musicale per alleggerire un po’ la testa dal tetro umore. Bisognerebbe prenderne atto e agire di conseguenza.
Un decennio sull’altalena, gli anni zero, molti successi e molti fallimenti, alti e bassi clamorosi, sogni/speranze e illusioni/delusioni in quantità industriale, tutto alla nefasta insegna di una precarietà ubiquitaria e contundente, qua e là paralizzante. E trovare una classica via di mezzo, rinunciare a qualche picco ed evitare di riflesso più di un tonfo, no? Potrebbe essere la sfida degli anni dieci: assestarsi su livelli intermedi, accettando la mediocritas in noi. O, viceversa, continuare a ogni costo a cercare l’optimum, con tutti i rischi del caso? Facciamo così: una optima mediocritas e non se ne parli più.
Spesso, quel nostro essere (stati) adolescenti fuori – ma molto fuori – dal tempo massimo, nella vita reale, quasi solo perché, da non nativi digitali, a tutti gli effetti pratici ancora adolescenti in quella virtuale.
Mutanti con gli occhi pieni di lacrime al ricordo del mondo della nostra infanzia ma, volenti o nolenti, calati in tutto e per tutto nella realtà di oggi. Piuttosto schizofrenici, di conseguenza.
È vero che l’innovazione si produce tendenzialmente al confine tra ordine e caos. Ma che equilibrismo che è richiesto.
Tenere insieme presente, passato, futuro, in un gran frullato dispensatore di fermenti vitali: un’impresa! A vuoto?
Nel bilancio tra vecchio e nuovo, grandi guadagni, grandi perdite, grande e disarmante indeterminatezza.
È quello che è / il tempo che si vive / è quel che si fa – per resistere, per non soccombere, per ribaltare le situazioni, spiazzando e cambiando.
Il tenace attaccamento interiore, istintivo, al di là di ogni nostra avversione razionale e dichiarata, alle realtà in cui nasciamo e cresciamo e viviamo.
Mai vergognarsi delle proprie origini. Può esserci stato – come c’è stato – molto di iniquo e sbagliato nel nostro passato, ma di solito c’è anche molto di valido, capace almeno in parte di fare da guida per il presente e per il futuro, specie nei momenti di maggiore criticità, quando è più evidente che di errori ne commettiamo e ne commetteremo sempre, soprattutto in preda alla cieca presunzione di essere assolutamente migliori di chi è venuto prima di noi, quando di rado è così.
Portare a spasso il cane la domenica mattina, salire sulla collina dietro casa, girargli intorno, ridiscenderne. Più di ogni altra cosa, anche più del cemento e dell’asfalto e del vetro e dell’alluminio e del ferro avanzati e avanzanti da ogni parte, colpiscono i casali diruti, i campi abbandonati e già riconquistati dagli arbusti spinosi o comunque testimonianza di un pressappochismo e un’incuria diffusi. Il paesaggio è bello, a momenti da cartolina; ma a guardarsi intorno con più attenzione, a fissarsi su questo o quel particolare, non dà vera letizia. Tornassero i vecchi che su queste terre hanno sputato sudore e sangue, viene da pensare, ci prenderebbero a calci nel culo, uno a uno, da qui all’eternità.
È nella natura delle cose, lo è sempre stata, è la realtà dell’evoluzione, del tempo che passa e lascia il suo segno, cancellando progressivamente i nostri, che anche la migliore costruzione mostri negli anni le sue crepe e subisca un processo ineluttabile di disfacimento e finale rovina. Un processo all’inizio lento e impercettibile; poi sempre più veloce e vistoso, soprattutto se la costruzione è abbandonata a se stessa, senza più cure, senza più nessuno che la viva, più nessuno che le infonda nuova vita, la rinnovi, nel caso la demolisca e la ricostruisca ex novo, su nuove basi, tanto per prolungare un po’ di più l’illusione di poter durare nel tempo.