Sei ombelicale, dice. Come tutti oggidì. Pensa per te, dice.
Si può dire che il tuo modo di fare, pensare e soprattutto scrivere sia “per agglutinamento”? Tendenzialmente sì. A volte, eccessivamente.
C’è il frullato tecnologico e il richiamo geologico, la natura rurale e la deriva culturale, il desiderio di andare e la smania di tornare, l’introversione e l’esibizione, l’apnea e la logorrea, l’euforia e la nevrastenia, la svogliataggine e la testardaggine. Ma un colpo al cerchio e uno alla doga, per male che vada non si soggioga.
Tutti questi mirabolanti modi di comunicare e tenerci sempre in contatto, quando magari trascuriamo totalmente chi è più vicino a noi.
Vita moderna: sapere un mondo di cose dal mondo e del mondo, e quasi niente su gioie e dolori – dolori, soprattutto – del mondo a due passi da te.
Una crescente offerta di news, ma la vera news forse è che stiamo diventando saturi di news e tutto ci scorre addosso senza fare più grande presa.
Perché dev’essere così difficile, oggi, far seguire alle parole i fatti, che tante volte potrebbero ridursi a un meditativo e alacre silenzio, con il vantaggio di non incrementare il già cospicuo e debilitante rumore di fondo?
Alto il rischio con la rete, pur procedendo con il freno a mano tirato, di finire presto in una sorta di frullatore, più o meno rumoroso e impazzito. Epperò, quando alla fine stacchi la spina a questo frullatore, se è vero che ritrovi forse una dimensione più raccolta e pacifica, è innegabile che ti viene a mancare più di qualcosa; c’è tanto che va perso a livello di espressione-comunicazione-interazione. E almeno nell’immediato, alto è anche il rischio di ritrovarti spento e apatico o smarrito.
Per necessità e per scelta, ogni tanto, ma sempre troppo poco, troppo brevemente, una pausa silente.
Reimparare, nelle pause, a riposare il cervello, contemplando.
Una settimana lontano dal pc, tra olivi, olive, verdi prati, boschi colorati e campi arati, e vedi che tra questo e quello proprio non ce n’è.
Quel mezzo scoramento quando scema la luce. Poi passa, ma in quel mentre ci si sente più soli e inermi.
Lo stordimento delle feste, come non bastasse lo stordimento abituale del troppo che ci alletta o ci indigna o ci reclama.
Non odi il Natale, no. Odi chi (te incluso, dunque) lo ha fatto diventare come è oggi: commerciale al massimo; un trionfo dello spreco e dell’esibizione; tutta una corsa e una fila senza senso; invivibile e inservibile, di fondo. A pensarci bene, lo stesso potresti dire per quasi ogni altro periodo dell’anno, se non quasi ogni aspetto della vita. Solo che a Natale, e in generale sotto le grandi feste, tutto questo si amplifica e di conseguenza il malessere e gli sbalzi di umore e il veleno interiore aumentano a livelli esponenziali.
L’eterna fascinazione per la neve, per un mondo che si ricopre di una patina di bianco e per qualche momento dà l’impressione di essere incantato, oltre che lindo. Solo per qualche momento, purtroppo, perché la realtà impiega sempre poco a reimporre il suo lato “sporco”.
Quella sensazione di tempo marcio che guasta in un niente i migliori propositi di essere o mostrarsi allegri e ottimisti.
Poi, dopo un giorno, anche il peggior fondo di malessere improvvisamente ridestato comincia a ridepositarsi, facendo tornare le acque chiare.
Probbia vere: rerrèsce na sperella de sole e sembra tutte naddre munne.
Il sole che ravviva le membra poltrite, la mente sfibrata.
Lungo la linea del mare si distende lo sguardo, si riprende l’umore.
Non hai nulla contro il mare; ti piace anche, per la verità. Ti piacciono cioè l’acqua, la spiaggia, gli scogli, la possibilità di perderti con lo sguardo verso un orizzonte sgombro e lasciare vagare il pensiero, anzi acquietarlo, in ascolto delle brezze e dei flutti. La vita e le attività umane che però si addensano nelle prossimità del mare, verso le foci dei fiumi e più in generale lungo le strade rivierasche, quelle no: non le senti tue quasi per niente. Devi così riaddentrarti nell’entroterra, vedere diradarsi case e capannoni e parcheggi e strade (sempre più un pio desiderio, con l’attuale ritmo di cementificazione, ubiquitaria, indiscriminata, che non risparmia niente, nemmeno i più bei luoghi del cuore, ligia solo alla legge del portafoglio, anche a rischio di vedere andare in fumo gli investimenti allo scoppio di una prevedibilissima bolla) e avvicinarsi colline e montagne, per poter sentirti un minimo a casa. Anche se “casa” è una parola grossa. Perché, ora qui e ora là, più avanziamo negli anni e meno ci sentiamo davvero a casa in un posto, in qualcosa. Alla fine l’unica vera casa che sentiamo di abitare sono forse le nostre esitanti parole o, all’opposto, i nostri inquieti silenzi.
Fissiamo il mondo in immagini mentre la vita ci scorre via, mentre il senso di quello che facciamo è ogni giorno più labile. Adoriamo gli spazi aperti e ariosi ma ci richiudiamo in cubicoli asfissianti. E senza più la visionarietà, l’audacia e la tenacia per accingerci a opere degne di futuri ricordi, impieghiamo le poche ore in cui possiamo dirci vagamente felici a ripercorrere i luoghi di antiche e spesso più sofferte ma anche più emozionanti, più vive memorie. Ultramoderni, finiamo per trovare vero sollievo e conforto solo adagiati su un prato o una spiaggia, le mani a sfiorare pietre vetuste, gli occhi rivolti lontano o socchiusi, sognanti.
Lo capisci, no? Viviamo di ricordi. E non va bene. Perché quando cominciamo a vivere quasi soltanto di ricordi è il segno che abbiamo ormai abdicato al presente, abdicato al futuro. Abbiamo perso ogni volontà attuativa e ogni capacità immaginativa. Viviamo suppergiù di rendita. Ma nessuna rendita dura in eterno.
Quand’è che è successo? Quand’è che abbiamo smesso di appassionarci ed entusiasmarci seriamente per qualcuno o qualcosa? Quand’è che di fatto abbiamo abdicato al futuro, adagiati sul presente o il passato e da questi in pratica paralizzati? Quand’è che insomma non abbiamo più trovato dentro e fuori di noi gli stimoli giusti per non evadere dal nostro bisogno di sentirci vivi esprimendo e producendo vita e non meri simulacri di vita? Quando? E come? E perché? E perché mai questo non potrebbe o dovrebbe cambiare?
La paura di portarci dietro per sempre l’umore legato alla musica più amata nei nostri vent’anni.
Di vent’anni in vent’anni le situazioni e le atmosfere non sono mai esattamente uguali, ma si somigliano parecchio, rimandando le une alle altre. E così gli umori che ne nascono e le pose, le mode, i movimenti, i suoni e le parole che ne sprigionano. Di vent’anni in vent’anni molto insomma si ripete, rilanciando, riattualizzando, rimescolando. Di vent’anni in vent’anni siamo diversi e uguali allo stesso tempo.
alle volte sì / ci pare di capire / se stiamo bene
Quel amour le printemps, de la montagne à la mer, le soleil que brille.
Alle cinque del pomeriggio di una radiosa giornata di lavori all’aperto sentire il bisogno di rifocillarsi inzuppando del pane nel vino cotto. Vous ne pouvez imaginer quelle madeleine !
Dacci oggi il nostro sole quotidiano – e poco alla volta il malumore forse scivola via; poco alla volta uno spirito vitale torna forse a rianimare esistenze fiaccate, provate da un clima economico, politico, sociale, culturale, ambientale già da qualche stagione più che lacero, guasto.
Il segreto per conseguire un obiettivo importante è… cominciare. Cominciare ogni giorno a dedicargli qualche mezz’ora del tuo tempo, all’inizio anche una soltanto. Poi, gradualmente, viene tutto da sé, avendo la bontà di perseverare in quanto stai facendo senza concederti pause e distrazioni troppo ripetute e prolungate. La convinzione di essere sulla strada giusta viene dopo, e può anche non esserci mai.
Rimandiamo sempre le grandi pulizie (esteriori e interiori), sapendo che una volta iniziato non ne verremo a capo per lungo tempo. Alla fine di un radicale riordino, però, cominciamo a mettere a fuoco un po’ meglio tutta una serie di situazioni. Magari, ci capita anche di capire qualcosa di più su di noi, gli invidiabili punti di forza così come le micidiali palle al piede.
Perseguire un giusto mix di alto e di basso, senza mai fissarsi né con l’uno né con l’altro, semmai alternandoli. E se qualcosa è proprio da rifuggire, forse è una costante, banale quanto sterile, medietas.
Più facile smettere o più facile continuare? Più facile esitare.