In viaggio
Continuava a essere, per autocitarsi (un’abitudine, questa, che difficilmente avrebbe perso, malgrado sostenesse di essere ormai un’altra persona rispetto all’io logorroico, autoreferenziale e non di rado supponente coltivato spesso negli ultimi quindici anni. Prova poteva esserne, diceva, che da mesi rifuggisse dall’uso della prima persona le volte che non resisteva a scrivere di sé – abitudine, anche questa, dura a morire – su blog e reti sociali, da ultimo rinunciando persino al tu per raccontarsi semmai in terza persona e perdipiù al passato, dunque con maggiore autocontrollo e distacco), un periodo assai difficile, che vedeva l’aggrovigliarsi e l’avvitarsi di tante situazioni da tempo critiche, senza apparenti vie d’uscita nel breve termine.
Ciò non toglieva che fosse anche un periodo da vivere fino in fondo, senza troppi freni, senza paure immotivate, con intensità, possibilmente anche con passione, con gusto vero per il viaggio.
Quel viaggiare che di certo non era il suo forte – escludendo i tanti giri solitari in bicicletta per i posti più belli delle sue parti, borghi, colline e montagne su tutti gli altri. Ed escludendo i viaggi interiori e quelli sulle ali delle numerose e variegate letture e traduzioni.
A viaggi veri, in luoghi lontani, e specie in compagnia, era in effetti carente. Non ne aveva avuto l’occasione nei momenti forse più propizi per vivere fino in fondo l’esperienza del viaggio; o, più probabilmente, non ne aveva mai sentito un bisogno impellente, irresistibile.
Non che questo lo facesse sentire deficitario di chissà che cosa.
Non che a guardare chi tanto aveva viaggiato e proseguiva a farlo riscontrasse, per dire, quale surplus di felicità e realizzazione di sé rispetto a lui e a tanti altri “sedentari” come e più di lui. Esperienze sì, a iosa, ma parlare di vera e solida contentezza di sé in queste persone il più delle volte non gli sembrava il caso.
A suo avviso tutto quel viaggiare era o era stato piuttosto un continuo fuggire da qualcosa con cui non si volesse fare davvero i conti; dunque, un continuo rinviare questioni e scelte più importanti, con ricadute più serie nella vita di tutti i giorni.
Un po’ come lui, certo, che pure a lungo era rimasto decisamente fermo, stanziale, legato alla sua terra e ancora di più alle sue origini contadine.
E non che ora volesse di colpo stravolgere se stesso e darsi anima e corpo ai viaggi. Solo, ammetteva, una maggiore apertura all’idea e all’esperienza concreta del viaggio nel suo caso poteva – e forse doveva – starci.
Per quanto, senza mai cedere alla tentazione banale del “collezionismo”, che fosse di mète e posti da visitare come di piatti, sapori o emozioni da provare compulsivamente. Di questo no, non ne sentiva il bisogno. E non per un discorso di boriosa superiorità o, all’opposto, malcelata inferiorità e chiusura; semplicemente gli pareva sciocco, quando non ridicolo.
Viaggiare, sì, ogni tanto, potendo, ma non come fuga o presunta panacea né come culto maniacale dell’esotico, del diverso. Viaggiare, piuttosto, per entrare maggiormente in contatto con la natura e, al fondo, con noi stessi. Viaggiare per cercare di carpire residue pillole di bellezza e benessere e puro buon senso da un mondo che, sotto l’impronta troppo spesso scellerata del pretenzioso uomo moderno, a guardarlo con attenzione sembrava ultimamente, di nuovo, non dare gran prova di sé.