E così finiva l’autunno

E così finiva l’autunno. Nell’occasione, finiva anche l’ultimo scampolo di semina, l’ultimo vero lavoro dell’anno.

E ora veniva l’inverno, veniva Natale, veniva l’anno nuovo. E solo all’idea era già piuttosto sgomento.

Perché adesso non ci sarebbe stata più scusa per non pensarci: al Natale, per cominciare, a come affrontarlo senza incupirsi; ma anche o soprattutto a che cosa fare da lì in avanti.

Perché valicato Natale, quello snodo dell’anno che, come e forse più del 31 dicembre, amplificava al massimo malumori e scontento in chi non riusciva a trovare in sé e nel mondo intorno a sé sufficienti motivi per i quali gioire e guardare con fiducioso e alacre ottimismo al presente e al futuro, si apriva presumibilmente un mezzo deserto, con un mondo di cose di nuovo da rivedere, rettificare, reinventare, in qualche caso ricominciare suppergiù da capo, pur senza sapere se in concreto ci sarebbero stati le energie e lo spirito giusto per farlo.

Era dunque con quei pensieri nella testa che si accomiatava per i giorni di festa, fosse riuscito o no a non farseli (e a non farli) pesare più del consentito. Prima di staccare, però, riciclava anche una mezza poesia.

Viene Natale,
oggi meno che spettacolare.
Stavo per dire una festa banale,
trionfo del trambusto ipercommerciale,
il segno di quanto si viva male.
Alla fine anche qui mi sa che tocca cambiare,
con un nuovo modo di vivere e di ragionare.
La festa è finita? Forse abbiamo sbagliato canale;
meglio tornare a un approccio più tradizionale.
E lasciatelo dire, anche se è un poco irrituale:
per riffa o per raffa, che palle a Natale!
Un augurio, però, si può dispensare:
ogni giorno dell’anno, amare, ideare, sognare.