Non fare come fosse un eterno carnevale
E lo stress di feste non troppo ben digerite (almost as usual, avrebbe potuto aggiungere) dopo un anno intero fortemente indigesto, alla fine chiese dazio. Nel momento esatto in cui poté allentare la tensione e rilassarsi, il corpo si ammalò infatti come non gli capitava da anni, esibendo, accanto ai sintomi abituali di indisposizione influenzale (vie respiratorie intasate, mal di testa e dolori accentuati alle ossa), una febbre a 38° quasi 39°, rarità per lui.
Era come se il corpo volesse riaffermare se stesso, le sue ragioni, chiedendo maggiore rispetto per sé e anche un suo migliore utilizzo. Quel repentino ammalarsi appena esauriti obblighi di questa e quella natura era insomma l’imposizione di un drastico altolà: andare avanti come successo negli ultimi mesi o forse anni non si poteva più. Lo suggeriva la mente; lo ribadiva, con tutta la forza di cui era capace, il corpo, appunto.
E pensare che, sia dal punto di vista strettamente culinario sia da quello psicologico e degli impegni, non erano state feste particolarmente gravose. Mangiare aveva mangiato un po’ più del solito, sì, ma dopo ogni pasto extra c’era stata una pausa alimentare adeguata a smaltire (quasi) il tutto. Cioè, non si era abbuffato e ancora abbuffato, a pranzo e cena consecutivamente o viceversa. E dopo Natale era perfino tornato a correre, per ben tre volte: la prima al mare, per cinquanta minuti, già a Santo Stefano; la seconda, per un’ora e venti, due giorni dopo, sulle strade a lui più care, in collina e a sfiorare il paese; la terza, per poco meno di un’ora, e di nuovo al mare, addirittura la mattina di Capodanno, dopo un San Silvestro molto parco e misurato, nella felice intimità di coppia.
C’erano state altre corse, naturalmente, in macchina per e da Pescara, e a distanza piuttosto ravvicinata l’una dall’altra. E a lui che non amava troppo guidare, questo un po’ di fastidio glielo dava sempre, inutile negarlo, ma nell’occasione forse meno che in altre. Più fastidiosi, forse, erano stati certi giri a tamponare dei bisogni in famiglia, sempre più ricorrenti con i genitori ormai più vecchi che anziani e passaggi e divisioni di responsabilità ancora non ben perfezionati. E non meno irritanti i nervi scatenati da quelli dei telefoni, per una pratica che da mesi non si risolveva. Senza parlare del velo di negatività appena si toccavano i tasti lavoro, soldi, progetti, presente, futuro.
Nel complesso, però, aveva avuto anche bei momenti, rilassati e perfino allegri, da solo e con l’amata. Aveva finito un buon libro, ne aveva iniziato un altro. Avevano visto al cinema un ottimo film. Avevano inaugurato l’anno “in società” con uno scoppiettante concerto a teatro. In particolare si erano regalati, come gesto propiziatorio per mesi a venire possibilmente più vitali degli ultimi e niente affatto banali, un primo breve viaggio e una prima visita a musei dell’anno: al MaRT e alla Casa d’arte futurista Fortunato Depero di Rovereto.
Avevano preso entrambi del freddo e anche diversa pioggia e soprattutto tanta umidità, in quei due giorni su e giù per mezza Italia in treno, prima a Bologna, poi a Rovereto, quindi brevissimamente a Trento e di nuovo via verso Bologna e verso Pescara. Ma a parte lo stanco e spento amarcord bolognese nelle due ore di attesa tra un treno e l’altro, trascinandosi dietro zaino e trolley sotto portici presi d’assalto da torme di invasati dei saldi (una Bologna che già non rimandava a ricordi eccelsi, ma mai come in quell’occasione era parsa estranea, uniformata, scialba), di sicuro era valsa la pena sorbirsi tutti quegli sbattimenti ravvicinati in auto e in treno e a piedi per fare indigestione di arte futurista, contemporanea e, nel caso della mostra su Antonello da Messina, sempiterna.
Lo spirito se n’era certamente giovato.
Il corpo un po’ meno, pareva invece di capire, e ora sarebbe stato opportuno ascoltare meglio le sue ragioni. Rispettarlo di più ed evitare di tornare a utilizzarlo a fisarmonica: era questo il dictat imposto scatenando subito e al massimo grado quel malanno di stagione.
A ben vedere, però, anche il cervello si era già rimesso in moto criticamente, seppure non alacremente, e, forse presentendo le sentenze del corpo, aveva partorito per tempo un motto potenziale per quell’anno appena iniziato, la sua personale risposta al “Marciare non marcire” di roveretana e futurista (e, ahinoi, pure fascista) memoria che lo attraeva e respingeva in pari misura: Non essere banale. Non fare come fosse un eterno carnevale.