A cuor leggero
Mancava un mese, dunque c’era ancora tempo, visto che quell’anno, con Pasqua altissima, la fine del Carnevale sforava ai primi di marzo. Ma cominciare già a pensarci non era una cattiva idea, specialmente in quel pessimo clima di crisi generalizzata che a turno abbruttiva, incattiviva e avviliva gli animi.
A tal proposito, giusto quella mattina, in un rinnovato sbotto di insofferenza aveva scritto una piccola nota scatologica che bene riassumeva il suo pensiero. Diceva che serviva ormai a niente, ma, per quel poco che seguiva ancora le vicende nazionali, si intestardiva a ripetere che il 2013 era stato un anno demenziale, culmine lampante di un decennio (forse si poteva parlare anche di un ventennio, quando non di un trentennio, ma per non buttare via il proverbiale bambino con l’acqua sporca preferiva limitarsi a un decennio) infantile ed escrementizio. E ora, a un mese dall’inizio del nuovo anno, gli veniva naturale aggiungere che di nuovo nel 2014 avrebbero assistito solo all’esplosione definitiva di situazioni da tempo fuori binario. Si affacciava molto ma molto tardivamente qualche tentativo di riforma, non poteva negarlo, ma era un po’ come mettere delle toppe al culo di una persona presa proprio in quel momento da attacchi incontinenti di diarrea. Prima che si ripristinasse un quadro passabilmente salubre, si aveva perciò voglia a dotarsi di mascherine, occhiali, tappi e guanti igienici.
Poi, in un successivo commento, come pentito di aver di nuovo ceduto a quei sentimenti di sfiducia e disprezzo e amarezza totali, aveva aggiunto che in realtà non gli piaceva per niente quello che scriveva in riferimento all’attualità e quando in generale pensava alla situazione italiana di quegli ultimi dieci/venti/trent’anni: sapeva di essere monotono, ripetitivo, per niente originale/spiritoso/brillante e, soprattutto, alle volte ultra critico/negativo/catastrofista. Avrebbe voluto sinceramente essere diverso da così. Avrebbe voluto avere pensieri un po’ ottimisti, e più ancora essere in concreto positivo e fattivo. Ma negli ultimi tempi gli riusciva estremamente difficile, specie se l’occhio ricadeva un momento di troppo sul quadro politico, al che lo scoramento diventava totale, non bastassero già le crescenti apprensioni di natura economica, familiare e, di nuovo, pure esistenziale. Allora davvero si incupiva; allora davvero cominciava a detestare questo paese. Allora, però, pensava pure che forse se lo erano un po’ meritato tutto quello: avevano probabilmente avuto altre carte da giocarsi in tempi migliori; avrebbero potuto benissimo evitare di arrivare fin lì. Avevano invece commesso errori su errori, inutile negarlo; in tante occasioni avevano sciupato veramente se stessi. E ora… ora si aveva voglia a fare gli schifati per come andavano le cose; si aveva voglia a pensare “Sai, se avessi fatto questo e quest’altro ora forse avresti potuto startene all’estero, ben sistemato e contento, e affanculo l’Italia”. Invece… invece niente, era solo il caso di non avvilirsi e più ancora non avvilire oltre un limite ragionevole, ché viceversa si continuava solo a farsi del male, a vivere male. Preferiva perciò imboccare la via di un operoso silenzio da lì in avanti, e smetterla sul serio di angosciarsi e angosciare se la situazione italiana era ormai così degenerata e inguardabile da essere pure inguaribile nel presente immediato.
E proseguendo su quella ultima linea di ragionamento, in un deliberato distacco dalla mediocre e avvilente attualità, in serata gli era così venuto da pensare al Carnevale, quello della sua città.
Mancava un mese, ma immaginava che i patiti da mo’ che si erano messi in moto. Da mo’ che pensavano non tanto ai balli, ai canti, ai dolci, alle trasgressioni e pur anche alle maschere e agli eventuali carri, quanto alle goliardie, alle mattane, alle scenette in cui calarsi con «una follia […] calcolata, inquadrata, equilibrata», in «una vera presa in giro di se stess[i], di chi gli vive[va] accanto, del potente di turno. Una plastica messa in risalto di situazioni sociali: di proverbi dialettali di cui si nutr[iva] la quotidianità; di eventi che [avevano] fatto ridere, discutere, arrabbiare, che insomma [avevano] tenuto banco».
«E allora eccolo, l’ascolano, [già proiettato a] dare sfogo alla sua estrosità vestendola di allegria; di discorsi proposti non da dietro l’anonimato di una bautta ma a viso scoperto; di silenzi mimati eppure saturi di eloquenza; di bravura nel saper coinvolgere la numerosissima platea che sotto i maestosi lampadari; a gocce o gioiosamente arlecchinati in sintonia ambientale, si riversa[va] nel centro storico».*
Ma lui ascolano verace non era. Era allo stesso tempo del contado e del mondo, più che della città natale. Alle volte se ne gioiva, si sentiva libero e indipendente, non aveva appartenenze che lo inquadrassero, che lo vincolassero. Altre volte, come a Carnevale, un po’ se ne rammaricava. Un po’ invidiava i portatori sani di quello spirito in pari misura dissacrante e fregnone, caustico e sornione, cinico e disincantato, greve e osceno ma difficilmente cafone, però mai l’avrebbe ammesso a cuor leggero.
- Marcella Rossi, Un carnevale territoriale, ilcarnevalediascoli.it.