Le condizioni del tradurre
C’erano le condizioni dello scrivere, che variavano naturalmente da scrittore a scrittore. E c’erano poi le condizioni del tradurre, che altrettanto naturalmente variavano da traduttore a traduttore.
Nel suo caso, esigevano uno stato d’animo il più sereno possibile, con la capacità di isolarsi al massimo grado dal mondo circostante e resistere con estrema facilità ai richiami e agli appelli esterni così come alle molteplici distrazioni che derivavano dall’essere ormai costantemente connessi in rete. Uno stato che, senza troppi giri di parole, avrebbe definito all’incrocio tra atarassia e aridità di cuore, tale da tagliar fuori ogni elemento di indebito disturbo per permettere al pensiero di occuparsi quanto più a lungo e intensamente solo delle parole e dei concetti da trasportare da una lingua all’altra, da una cultura all’altra, da una pagina già scritta a una ancora tutta da riempire.
La traduzione diventava a quel punto la sua vera ed esclusiva amante (molto più che un figlio o una figlia, come potevano vederla altri traduttori, le donne soprattutto). Nulla di più e nulla di meno.
Ma quando quello stato ideale s’incrinava, per i motivi più vari, anche le traduzioni scricchiolavano. Viveva meglio, magari, più dinamico e brillante e simpatico, più contornato da amori e affetti e amicizie e svaghi reali, o all’opposto diventava preda di tensioni e problemi e insofferenze crescenti, ma il tradurre no, non filava.
Il buon tradurre per lui esigeva insomma quiete, stabilità, distacco, non necessariamente silenzio ma l’assenza di rumori molesti sì, oltre a una dedizione e una costanza quasi assolute, con la messa al bando di interruzioni e distrazioni protratte o continue, senza fondato motivo.
E poi c’era bisogno di fiducia. Fiducia nel committente e nei referenti. Fiducia nella bontà e utilità del testo da tradurre. Fiducia nelle proprie capacità di traduttore.
Senza fiducia non si andava da nessuna parte: era la fine. Anzi, non si cominciava nemmeno.