Un diesel?

Vai abbastanza spedito a tradurre dal tardo pomeriggio all’una o le due di notte, con la musica bella pimpante, dinamica, adrenalinica, che esce dalle casse dello stereo, redivivo.

Non così la mattina, dopo quelle sette ore nel letto (nel letto, sì, non di sonno profondo. Perché se ne dormi cinque filate è grasso che cola. Il resto è un inquieto dormiveglia, un continuo rivoltarti, metterti di traverso, tirando su ora un ginocchio ora l’altro. Non a caso c’è chi un tempo diceva che di notte sembravi un terremoto) che nessuno può toglierti.

La mattina fatichi sempre a carburare, ti distrai facilmente, hai bisogno di una partenza soft, di concedere una tregua al cervello, che anche nel sonno non ha fatto che ruminare.

E se – come capita sempre più spesso, con i genitori divenuti anziani e la conseguente serie di incombenze che ora ricadono su di te – di mattina devi assecondare qualche altro compito, le difficoltà a riprendere le fila del discorso traduttivo si moltiplicano, anche ben oltre l’ora di pranzo.

È come se il cervello, o più ancora il corpo, ormai sulla soglia dei cinquant’anni, non ce la facciano più a commutare rapidamente e senza colpo ferire da un’attività all’altra, richiedendo dunque tempi di riscaldamento e messa in moto più dilatati di anni addietro, nonché attenzioni molto maggiori.

Non così una volta. Quando ancora correvi, letteralmente. Sulla strada, oltre che con le traduzioni.

E anche lì di norma partivi piano, i primi venti minuti eri sempre molto legato, con i tendini e i muscoli delle gambe tesi e le giunture che a fasi scricchiolavano. Poi dai venti ai quaranta minuti andavi già meglio, cominciavi a sentire il corpo rispondere alle sollecitazioni, ai cambi di ritmo. Ma solo passati i quaranta sentivi di poter iniziare a spingere, ad allungare la cadenza e la lunghezza dei passi, aumentando di quel tanto che potevi anche i battiti del cuore. E nel finale, che fosse dopo un’ora, una e mezza, due o tre, un piccolo sprint, se avevi corso bene, se avevi saputo dosare le energie, se non avevi accumulato fastidi.

Anche a Roma, alla maratona, dopo tre ore e tre quarti, non l’avevi fatto quell’ultimo chilometro in accelerazione, tutto in corsia di sorpasso, sostenuto dall’euforia di un momento forse irripetibile?

Eri un diesel, un tempo, con ogni evidenza, a correre come a tradurre.

Un buon trattore, nei fatti.

E oggi?

Sempre un diesel, suppergiù, ma molto meno potente ed efficiente, molto più incline a ingolfarsi al minimo inconveniente, molto più esausto già dopo uno sforzo di troppo.

Un diesel non ancora da rottamare, magari, ma bisognoso evidentemente di una manutenzione più regolare e accurata, di meno interruzioni, di meno deviazioni, di percorsi su strade un po’ meno erte e accidentate.

Un valido motocoltivatore, probabilmente, se tenuto e usato bene, più che il trattore pesante di un tempo.