Comunità, community, comunitarismo
Di due giorni prima una sequenza di tweet, allo stesso tempo giocosi e pensierosi, su comunità e community.
Cos’è che ci tiene incollati a uno smartphone appena siamo senza far niente? chiese lui.
La necessità di riempire il vuoto, rispose lei.
Lui: E una volta, allora, come si affrontava questo vuoto che definisci esistenziale?
Lei: C’era la religione.
Lui: Aveva quindi ragione Hesse quando scriveva, suppergiù, che per i contadini contava di più un buon prete che un buon medico?
Lei: Uhuh.
Lui: Insomma, oggi lo smartphone sarebbe la nuova religione, che ci soccorre ovunque nei momenti di bisogno?
Lei: Sì, ma crea dipendenza. E al posto della comunità parrocchiale oggi abbiamo la community virtuale.
Lui: Esatto. Ma, stringi stringi, che vuoto intorno a noi.
Di vent’anni e rotti prima una traduzione in proprio, allo stesso tempo dilettantesca e istruttiva, su comunità e comunitarismo. Con una doverosa rimessa a punto, ora anche la sua prima proposizione pubblica.
«THE SUNDAY TIMES», 9 ottobre 1994, sezione News Review, pp. 6-7.
Non ci può essere una via di mezzo
Destra e sinistra sono alla ricerca di una nuova idea guida. Entrambe si sono imbattute in una teoria americana: il comunitarismo. A questo si ispirano Tony Blair quando parla di comunità e John Major con la sua idea di conservatorismo civico. Ma alla fine ne avranno entrambi a male, scrive Norman Stone.
C’è stato un momento, qualche anno fa, in cui andavano molto di moda i libri catastrofisti. Il migliore che ho letto era di lord William Rees-Moog: prediceva l’arrivo di una nuova crisi economica. Non pare che ci sia stata. Possiamo allora essere ottimisti? Non molti lo sono di questi tempi, così una nuova ideologia è spuntata in soccorso dei pessimisti: il “comunitarismo”.
Come ogni ideologia capace di suscitare consensi, ha un che di attraente. Dice che la risposta ai mali attuali deve essere la “comunità”. I grandi centri gestionali vanno sostituiti con strutture più snelle, informali, magari su base volontaria. La famiglia dovrebbe tornare ad essere il perno della società. Il divorzio andrebbe reso più difficile, in modo da avere meno bambini infelici, condannati alle droghe e senza uno scopo nella vita. Nelle comunità, dove tutti sanno tutto di tutti, i criminali verrebbero subito smascherati e umiliati.
Sono idee in genere gradite alla destra. Ma anche la sinistra ha di che rallegrarsi. Si controlla l’economia e si tassano i ricchi: l’egualitarismo è una componente essenziale del nuovo credo.
Il comunitarismo nasce dalla ricerca di una “terza via” tra capitalismo e socialismo. La tesi è che né il capitalismo né il socialismo offrono soluzioni per il futuro. Il capitalismo ha portato crescita e innovazione ma ha prodotto anche problemi terribili: ha creato sacche congenite di senza-speranza, premiato i furbi intelligenti e lasciato a se stessi quanti sono rimasti intrappolati nei fallimenti del mercato. Il socialismo ha chiaramente fallito e ogni partito di sinistra dell’Occidente deve riconoscerlo, come ha fatto di recente Tony Blair.
C’è un dio in paradiso, e uno degli argomenti in suo favore è che qualcuno nell’universo deve avere un prodigioso senso dell’umorismo. Karl Marx volle sfidarlo, e fu un errore, perché morì nel 1883 con tre metri cubi di statistiche sull’economia russa accanto al letto di morte. Comunque sia, Marx spinse il mondo a sinistra, tenendolo in questa direzione per un secolo. Il danno arrecato alla sinistra è stato considerevole, tenuto conto di come la sinistra pre-marxista fosse seria e avesse addirittura inventato gli Stati Uniti. Accantonato Marx, si torna ora al vero argomento.
Il comunitarismo ha antiche radici americane. Su questo continente si poteva fingere che il resto del mondo non esistesse; fu così che fiorì l’idealismo utopico. Dopotutto, chiunque poteva progettare la società ideale, ammesso di non doverla difendere. Dovendo curare la difesa, i rapporti con l’estero e il commercio, sarebbe diventato inevitabile porsi sullo stesso piano degli altri.
Un’innocenza originaria interessava l’America (al pari dell’Australia). Ci furono persone come Henry George, o movimenti come il Credito Sociale in Canada, con radici nel protestantesimo nordeuropeo, che pensavano che una piccola repubblica di cascine, dove la circolazione creditizia si riducesse al più in buoni per la rasatura del prato al figlio del vicino, avrebbe risposto ai problemi dell’economia del mondo.
Non è un caso se Amitai Etzioni, professore di sociologia alla Washington University e guru del comunitarismo, pensa che le sue idee si caleranno meglio proprio in quel nord protestante.
C’è un altro forte motivo di pessimismo: i sistemi di welfare sono ingolfati e le grandi strutture governative degli anni ’80 che avrebbero dovuto ridurre la spesa assistenziale non ci sono riuscite. Le colpe dei governi, attraverso gli anni, sono abbastanza chiare. Trasformano chiunque in funzionario o proletario, e se devono pareggiare i conti lo fanno attraverso l’inflazione. Allo stesso tempo provocano altri guasti: sempre alla ricerca di risultati immediati, trascurano i problemi più importanti sul lungo termine. Se sei un padre di famiglia o lavori nel campo dell’istruzione, questo ti è ovvio da parecchio tempo.
Finora il confronto destra-sinistra s’incentrava sui soliti temi. Era chiaro che entrambi gli schieramenti politici avessero disperato bisogno di una nuova idea guida. Ecco allora il comunitarismo. I suoi temi sono la famiglia, il lavoro, la mutua responsabilità. La società dovrebbe sostanzialmente decentralizzare tutto, affinché siano le “comunità”, non il grande apparato statale, a gestire la cosa pubblica. Piccolo è meglio; dunque, fine al Grande Stato e ai suoi modi autoritari e aggressivi. C’è qualcosa in questo che piace. Attrae la destra quanto la sinistra, benché non le soddisfi appieno per come sono attualmente concepite.
È però facile spiegare perché molti politici occidentali stiano iniziando a flirtare con il comunitarismo. È in linea con la dottrina europeista, con la visione di un’Europa come comunità di regioni tipo le Fiandre e la Scozia. Alcune misure di decentralizzazione hanno senso: perché gestire tante funzioni a livello nazionale quando la tecnologia consente di farlo a livello locale? Nel passato era più economico agire tramite un’economia di scala; oggi no. Basterebbe che il comunitarismo prendesse un altro nome e subito sarebbe una novità capace di vincere le elezioni.
Ma, nel complesso, che dire? La supposta “terza via” tra socialismo e capitalismo ha un pedigree notevole. Per secoli gli europei si sono interrogati su che fare del capitalismo. Col passare degli anni, le dinastie capitalistiche diventano pigre, divise, corrotte. La prima generazione è retta, modesta, energica, devota; quella successiva è intelligente e innovativa; l’altra ancora opera in banca, e quella dopo muore di Aids ascoltando il Lohengrin. La cosa migliore da fare, se ti capita di fare i soldi e non appartieni a una famiglia reale, è diseredare i bisnipoti.
La ricerca di una terza via è a suo modo attraente. Tentò la chiesa cattolica nel Cinquecento in occasione della Controriforma. I suoi santi – come Vincenzo de’ Paoli – stavano tra i poveri ma avevano contatti anche con i ricchi. La loro risposta al problema era costituire “comunità” nelle quali il ricco pagasse, attraverso la chiesa, per il povero. Nel frattempo gli imprenditori erano di norma restii anche a pagare le tasse, sicché passarono in massa al protestantesimo e, nei secoli a venire, a un secolarismo materialista.
Sullo sfondo, comunque, è un sentire comune attraverso i tempi che ci debba essere un modo meno impietoso di governare. Oggi si parla di comunitarismo. È un’idea attraente, finché non vai a vedere i dettagli. “Comunità”, al pari di “sociale”, è una parola trabocchetto. Di fatto significa “burocrazia”. Ci fu un tempo, per esempio, in cui si poteva guardare con ammirazione al sistema federale tedesco di decentralizzazione; si è poi scoperto che è estremamente costoso, perché tutto viene duplicato più volte, tanto che ora il debito pubblico della Germania è una delle preoccupazioni più serie dell’Europa.
La “comunità”, concordiamo, è una delle più grandi forze creatrici nella storia moderna. Ma ha anche significato crudeltà. “Comunità” era il Massachusetts protestante al tempo del processo alle streghe di Salem: tutti ficcavano il naso negli affari di tutti. I villaggi di frontiera sopravvivevano solo applicando regole severe; in alcuni i vagabondi venivano addirittura impiccati. Il caposaldo di tenere unita la famiglia produceva un’atmosfera di totale incomprensione, se non vera e propria ostilità, nei riguardi di donne e omosessuali. Alcuni stati punivano addirittura la masturbazione, altri prevedevano la castrazione per gli handicappati mentali.
Ho il timore che il comunitarismo sia di nuovo la trovata di un sociologo americano che non ha ben capito il passato. Il peggio è che non si avvede degli sbocchi che ebbe quella parte di passato. Verso il 1890, quando la chiesa cattolica dovette chiarire le sue posizioni nei confronti del mondo moderno, produsse un documento molto più accattivante di qualsiasi scritto marxista: la Rerum Novarum. Quell’enciclica pronunciò un anatema contro i capitalisti, presunti artefici del male.
Giuseppe Toniolo, un professore cattolico, elaborò quindi un progetto di stato non-capitalista. La guerra di classe veniva scongiurata tramite le “camere di commercio” che negoziavano i salari medi, e c’erano un mucchio di burocrati con un mucchio di leggi. Egli chiamò il suo modello di stato “stato corporativo”.
Alla fine qualcuno lo mise in pratica: il suo nome era Mussolini.
L’uomo con la grande idea?
Amitai Etzioni, con la sua ricerca di una terza via tra uno stato assistenziale sempre più espanso e un libero mercato senza regole, ha attratto i politici di tutto il mondo, che hanno visto nel suo pensiero un modo di superare lo schema fisso destra-sinistra.
Molta della campagna elettorale di Bill Clinton era basata sui principi “comunitaristi” sviluppati da Etzioni, professore di sociologia alla Washington University. Il vicepresidente Al Gore si tiene in costante contatto con lui.
Ora l’influenza di Etzioni si sta allargando all’Europa. Di recente è stato in Germania per un colloquio di cinque ore con il cancelliere Helmut Kohl, interessato (quanto il principale avversario, il socialdemocratico Rudolf Sharping) alle potenzialità elettorali del pensiero di Etzioni.
Anche in Gran Bretagna, Etzioni attraversa gli schieramenti politici. Lo ha consultato Gordon Brown, ministro ombra delle finanze del New Labour di Tony Blair, al pari di David Willetts, uno degli ispiratori del “conservatorismo civico” di John Major.
Etzioni sostiene che la politica occidentale sia ossessionata dai diritti, mentre avrebbe dimenticato i doveri. La società si è di conseguenza disintegrata, in balia delle pretese individuali.
La politica deve perciò riscoprire una base etica. Le persone devono riscoprire un senso di mutua responsabilità. Questo significa ridare forza alle istituzioni tra l’individuo e lo stato: la famiglia, la scuola, il quartiere, la comunità.
Il comunitarismo richiama alla responsabilità nella vita familiare e nell’educazione dei figli, e propone di rendere più difficile il divorzio. Sostiene inoltre il workfare (l’assistenza pubblica condizionata a prestazioni di lavoro da parte degli assistiti), il servizio comunitario, l’educazione civica nelle scuole, l’umiliazione pubblica dei criminali.
Chi dovrebbe pagare l’assistenza?
Il vecchio argomento tra welfare state e libero mercato è obsoleto, sostiene Amitai Etzioni, fondatore dell’influente movimento “comunitarista”. In un articolo esclusivo elenca i ruoli che dovrebbero svolgere l’individuo, la famiglia, la comunità e lo stato in una società moderna.
Consideriamo il problema del welfare state. Questo assume forme diverse nei diversi paesi, ma alla fine del Ventesimo secolo pone alcune questioni comuni in tutto il mondo. Ai cittadini piace in genere l’idea di un sistema che li assista nelle difficoltà. Ma i vari governi evidenziano sempre di più come i conti pubblici non possano reggere sistemi assistenziali con gli attuali livelli di spesa.
Finora ci sono state due posizioni. La destra dice che l’intervento statale – in tema di salute, educazione, sicurezza sociale – deve essere ridotto, perché non sappiamo più come finanziarlo e perché induce una cultura della dipendenza, scoraggiando l’iniziativa individuale. La sinistra sostiene che se si riducesse la disoccupazione i conti pubblici godrebbero di entrate aggiuntive, grazie ai nuovi contributi dei lavoratori, in grado di finanziare gli attuali livelli di spesa. Ma nessuno di questi approcci offre una soluzione ragionevole.
Nessun individuo è semplicemente una vittima indifesa. La sinistra non può quindi dare la colpa al “sistema” se tra di noi esistono ancora i poveri, insieme a tutti gli altri mali sociali. Ci sono lavoratori seri e onesti di tutte le condizioni socioeconomiche; quindi, nessuno va esentato dal contribuire come meglio può al suo miglioramento. Questo significa che alcuni servizi garantiti ora dallo stato assistenziale dovrebbero e potrebbero essere gestiti in proprio dai comuni cittadini.
Allo stesso tempo, quanti a destra attribuiscono i mali sociali esclusivamente all’indegnità morale del singolo individuo dovrebbero riconoscere che ci sono condizioni socioeconomiche che nessuno è in grado di controllare e che comportano costi umani spropositati.
Chiunque perda il lavoro a causa del cambiamento tecnologico non dovrebbe essere costretto a pagare da solo il “costo del progresso”. La società deve continuare a condividere questi pesi e deve esistere uno stato assistenziale che se ne occupi, mentre tentativi di eliminarlo del tutto non sono ammissibili.
Nella visione del comunitarismo, si dovrebbe perciò mantenere un nucleo forte ma ridotto di welfare state. Altre funzioni, attualmente ricoperte dallo stato, andrebbero invece trasferite agli individui, alle famiglie, alle comunità.
Il paradigma filosofico per questo cambiamento richiede lo sviluppo di un nuovo senso di responsabilità, sia individuale sia reciproca. Ma come facciamo a stabilire quali attività investire a quale livello di società?
Con il principio di sussidarietà. Secondo il quale, la responsabilità di una data situazione ricade in primo luogo su chi è più vicino al problema. Solo se una soluzione non può essere trovata dal singolo individuo, la responsabilità compete allora alla famiglia. Solo dove la famiglia non ce la fa, va chiamata in causa la comunità locale. Solo se il problema è troppo grande anche per questa, deve intervenire lo stato.
La responsabilità prima fa capo all’individuo, nessuno escluso. Prendiamo l’esempio estremo: supponiamo che per un incidente d’auto una persona sia paraplegica in un letto d’ospedale, riuscendo solo a tenere una matita tra le labbra, con la quale girare con grande fatica le pagine di un libro. Dovremmo allora assegnarle un’infermiera che l’aiuti a girare le pagine? Il punto di vista comunitarista è che la persona costretta a letto faccia da sola ciò che ragionevolmente riesce a fare da sé; questo, sia per la dignità che deriva dal contribuire al proprio benessere sia per il conseguente gravare di meno sugli altri.
Lo stesso vale per il drogato, il povero, il non istruito, l’handicappato: nessuno è esentato dal dare il proprio contributo. Nello stabilire quali debbano essere tali contributi, è necessario distinguere. Non è stata questa la filosofia, ultimamente. Riguardo ai vari gruppi sociali, i lavoratori hanno avuto la tendenza a “tollerare” qualunque stile di vita. Non deve più essere così: devono tornare al vecchio ruolo di agenti della società, facendosi portatori di un nucleo di valori anche nei confronti di chi non li condivide. Dovrebbero essere difensori “giudiziosi” di modi di vivere sani e responsabili.
Con conseguenze di vasta portata. Ci sarebbe da parte di tutti l’obbligo morale a smettere di fumare, a non fare abuso di alcool e droghe, a fare solo sesso sicuro. Imporre piccole multe a chi non rispetta i richiami sociali è giustificato. Negli Stati Uniti alcune assicurazioni private sulla salute fanno risparmiare ai non fumatori 12,50 dollari al mese, né più né meno che far pagare 12,50 dollari a chi fuma.
Benché gli aumenti sulle imposte al consumo e sulle assicurazioni equivalgano in generale a tassazioni regressive che gravano sui redditi minori, piccole ammende per comportamenti “riprovevoli” sono tuttavia un modo corretto ed efficace di esprimere i valori della società.
Miglioramenti significativi dello stile di vita farebbero risparmiare alla società il denaro necessario a coprire i costi crescenti dell’assistenza sanitaria.
La seconda linea della responsabilità è la famiglia. La tendenza della società moderna è stata a spogliare di doveri la famiglia per assegnarli a istituzioni rette dallo stato. Ecco così i bambini piccoli affidati ad asili nido e scuole materne, ed ecco malati e anziani ricoverati in case di cura. Quest’ultima è una tendenza appena agli inizi in Gran Bretagna, ma negli Stati Uniti è già molto avanti nella pratica.
Questa istituzionalizzazione strisciante delle relazioni umane è uno dei principali motivi dei costi crescenti dei sistemi di welfare. Di pari passo si è andata esaurendo la disponibilità pubblica a pagare con nuove tasse ulteriori espansioni dello stato assistenziale. Insieme, questi due fattori creano una situazione pericolosa in cui le famiglie non sono più abituate a dover prendersi cura dei propri cari in condizione di dipendenza e debolezza, e nello stesso tempo non vogliono saperne – o non hanno la possibilità – di finanziare un sistema che se ne faccia carico a livello di interventi di spesa pubblica.
La soluzione è far riassumere alle famiglie parti di queste responsabilità, specie per quanto riguarda i bambini piccoli e quei malati e quegli anziani che potrebbero benissimo stare a casa. Un esempio: dimissioni più rapide dall’ospedale dopo un parto e dopo la maggior parte degli interventi chirurgici.
Se ne hanno tre benefici: si riducono i costi pubblici; si rafforza la famiglia; nella maggior parte dei casi si fornisce ai pazienti un’assistenza più personalizzata e meno soggetta ad abusi che non nel servizio pubblico.
Ma per rendere questo approccio fattibile, si devono innanzitutto creare le condizioni perché sia più facile per le famiglie assolvere ai propri doveri, per esempio con orari di lavoro più flessibili, il ricorso al job sharing o lavoro ripartito, l’utilizzo delle nuove tecnologie per lavorare direttamente da casa.
Altri modi di potenziare il protagonismo delle famiglie potrebbero essere le cooperative di genitori, dove a turno padri e madri si prendono cura di un gruppo di loro bambini o parenti anziani, sia in totale autonomia sia a supplemento del personale dei servizi pubblici.
Si dovrebbero trovare anche nuove soluzioni perché i padri che si allontanano dai figli in seguito a una separazione o un divorzio contribuiscano alla loro educazione.
La terza linea della responsabilità è nella comunità di appartenenza. Il vicinato può svolgere un ruolo molto utile nella prevenzione dei reati e nel fornire assistenza ausiliaria a vigili del fuoco e addetti alle emergenze. Gli amici possono fare da operatori sociali e provvedere ad alcuni servizi di salute mentale. Le associazioni civiche possono accordare prestiti.
Non si tratta di pura fantasia. Prendiamo l’esempio di Seattle. Alcuni anni fa le autorità sanitarie locali furono allarmate dalla scoperta che chi aveva un attacco cardiaco doveva essere ricoverato in ospedale entro quattro minuti, viceversa poteva andare incontro a lesioni irreversibili al cervello o di peggio ancora. Il costo per potenziare il servizio di ambulanze in città era però proibitivo.
Quattrocentomila cittadini, quasi la metà della popolazione di Seattle, furono allora istruiti sulle tecniche di primo soccorso in caso di arresto cardiaco. Il risultato è che oggi c’è quasi sempre un volontario pronto a soccorrere una vittima di infarto nel giro di un minuto, a qualsiasi ora e con un costo bassissimo per la comunità. Questo training ha contribuito a fare di Seattle una città in cui ognuno sa di poter contare su qualcun altro; nei corsi di aggiornamento sulle tecniche di rianimazione cardiaca i cittadini hanno preso a conoscersi a vicenda e oggi sono orgogliosi del loro spirito comunitario.
Il problema di quali precisi compiti affidare alla comunità e quali mantenere in seno allo stato assistenziale ha poca importanza a fronte di una comprensione relativamente chiara di chi fa che cosa.
Il quarto livello di responsabilità è nella società nel suo complesso. La società ha il dovere di aiutare chi da solo non ce la fa, di intervenire nelle calamità impreviste e di occuparsi dei pochi servizi che, unanimemente, la comunità ritenga assolti meglio dallo stato. Non c’è contraddizione tra chiedere che ognuno faccia la sua parte e rendersi conto che qualcuno avrà sempre bisogno di essere assistito dopo aver assolto i propri compiti o mentre li adempie.
Il modo migliore di stabilire chi abbia diritto ai servizi dello stato non è fare controlli (che marchiano i destinatari e, alla lunga, erodono il sostegno pubblico al programma), ma trattare i servizi concessi come entrate tassabili. In questo modo tutti continueranno a ricevere gli assegni per i figli, l’assistenza sanitaria e così via, ma quanto più uno è ricco tanto più dovrà restituire alla cosa pubblica in termini di imposte.
Stabilire prestazioni comunitarie per tutti tranne che per le madri di neonati e i disabili gravi – workfare anziché welfare – è molto in linea con le posizioni dell’etica, la psicologia, la produzione di beni in comune.
Molto di quanto sopra esposto richiede un nuovo spirito. Qualunque cosa ne pensino i politici, la scelta vera per il futuro non è tra welfare state e privatizzazioni. Dovremmo riconoscere che ci sono state nel passato altre strutture della società che assumevano su di sé un carico sociale: le comunità, le famiglie, gli individui.
È ora di riscoprirle e creare un nuovo sistema di welfare in cui tutti possano svolgere la loro parte in modo onorevole e degno di fiducia.