La scrivana e lo scrivente. No, la scrittrice e il traduttore

C’era lei, la @copydimare, che, pur avendo già scritto e pubblicato svariati racconti e, da ultimo, anche un primo libro, tutti più che ben accolti, si ostinava ancora a definirsi “scrivana”, in linea con la distinzione da lei fatta tra “scrivano” e “Scrittore” nel memoir dall’emblematico titolo Lo scopriremo solo scrivendo. L’odissea occupazionale di un’operaia della parola (Panda Edizioni, aprile 2015).

V[oce] F[uori] C[ampo], tono petulante: “Come sarebbe a dire, ‘scrivana’? Chi scrive, non è piuttosto uno Scrittore?”

Urge fare chiarezza, paragonare i sostantivi. Distinguere tra lo Scrittore, che scrive soprattutto per passione, e lo scrivano, che lo fa per lavoro. Naturalmente lo Scrittore può scrivere per passione e anche per lavoro, ma la prima prevarrà sempre sul secondo; e lo scrivano può scrivere anche per passione oltre che per lavoro, ma il secondo prevarrà sempre sulla prima.

Dietro uno Scrittore di Fama, c’è spesso uno scrivano che ha fame. Perché lo Scrittore firma sempre la sua Opera, anche quando è alimentata dal lavoro di uno scrivano; lo scrivano invece non firma quasi mai la sua opera, soprattutto se deve cederla a uno Scrittore.

L’Opera dello Scrittore, quando viene pubblicata, è giudicata dai lettori e dagli “addetti ai lavori”; l’opera dello scrivano, se e quando viene resa pubblica, è deplorata da chiunque, anche dai non “addetti ai lavori”.

C’era poi lui, @ennemme, che, pur avendo al suo attivo, da ventennale traduttore editoriale, decine di migliaia di pagine pubblicate, tra articoli, reportage, racconti, romanzi e soprattutto saggi, e, da vecchio blogger di second’ordine, qualche migliaia di post, nonché, da impenitente compilatore di frasi lapidarie e spigolatore di link utili, qualche migliaia di tweet, si limitava a dirsi – non si sa quanto spregiativamente – “scrivente”.

E, rigorosamente da “scrivente”, il suddetto aveva a suo tempo commentato anche il summenzionato libro della “scrivana”; per meglio dire, l’opera prima che la scrittrice con il copywriting e il mare nel sangue gli aveva – non si sa quanto meritamente – dedicato nelle vesti di suo “miglior nemico” ovvero, suppergiù, suo petulante “grillo parlante”.

“Sei importante, ma non indispensabile”. Quante volte ve lo sarete sentiti ripetere o detti da soli, nel lavoro come forse nella vita. Anche la protagonista di questo libro se lo sente dire a più riprese nella sua odissea lavorativa di “scrivana”, di professionista (no, non “operaia”, per quanto sia questa la definizione adottata nel sottotitolo e in tutto il volume) della parola al servizio di terzi spesso saccenti, spesso palloni gonfiati, spesso profittatori, spesso quaquaraquà in questi nostri tempi più che mediocri. Dal racconto dolente e caustico di tali esperienze viene fuori un ritratto icastico della battaglia quotidiana per non soccombere alle difficoltà della perdita e dell’assenza di lavoro e reddito che oggi accumuna una grande fetta di chi, pur senza avere santi in paradiso, aveva creduto nelle possibilità di guadagnarsi dignitosamente da vivere facendo leva sulla propria passione e predisposizione per un uso efficace e creativo della conoscenza e delle lingue. Non è un libro perfetto, va da sé: a volte c’è forse un eccessivo compiacimento per un uso magistrale delle parole, come del resto si confà a ogni copy che si rispetti; in altre si capisce che le ferite ancora fresche delle tante delusioni e batoste subite non consentono di dare maggiore respiro e ampiezza alla narrazione, costretta così a essere molto circoscritta e autoreferenziale. Concluderei però dicendo che, a differenza della frase riportata all’inizio, questo è sicuramente un libro “non solo importante ma indispensabile”, che va di buon diritto a inserirsi nella crescente produzione della cosiddetta narrativa europea del precariato. Firmato: il “miglior nemico”.

Concludendo seriamente, si poteva però dire così, in buona sintesi: che sia la scrivana – no, la copy e la scrittrice dell’abruzzese e moderna città di mare, ma nativa della vetusta città sulla “via viscerale” – sia lo scrivente – no, il traduttore piceno-aprutino con la campagna e la montagna (e, purtroppo, la rete) nel cuore – per l’avvenire avrebbero dovuto sforzarsi di dare – ma anche raccogliere – un po’ di più e meglio nelle loro vocazioni-professioni primarie, lasciando per quanto possibile dietro di sé le vicissitudini, le ferite, le dissipazioni e anche le reiterate irrisolutezze dell’odiato-amato passato e del mesto e deprecato presente, per concentrare da lì in avanti le loro doti ed energie rifulgenti solo su ciò che amavano davvero e, di conseguenza, sapevano fare né più né meno alla grande, quando e se ci si mettevano.