La battaglia quotidiana per «una vita decente»

Un giorno dovrò tornare seriamente sulla traduzione di L’uomo che scrisse il romanzo perfetto, di Charles J. Shields (Fazi Editore, 2016). Un libro che più di altri mi è piaciuto (co)tradurre, avendolo subito sentito “mio” (non ultimo, non lo nego, per la comune estrazione contadina con John Williams); che davvero credo mi abbia detto e dato più di altri; e per il quale nemmeno le immancabili difficoltà di lavorazione si sono fatte sentire in modo particolare.

Essendo un’anteprima mondiale, il testo in inglese su cui io e la @copydimare abbiamo iniziato a lavorare non era ancora quello definitivo; giunta la versione finale, è stato così necessario rivedere tutto da capo, e anche abbastanza a fondo. Ma è stato un impegno aggiuntivo che personalmente non mi è pesato, facendomi anzi entrare ancora meglio nell’opera, nei suoi protagonisti – è una biografia di Williams, è vero, ma di contorno ci sono tanti altri personaggi non secondari – e nei suoi temi.

E uno dei temi più ricorrenti, uno di quelli che mi hanno anche preso di più e che probabilmente ho tradotto con più “gusto”, era quello sulla necessità/difficoltà di conciliare scrittura e insegnamento: sia da parte di Williams, sia – in misura forse più drammatica, cioè senza mai arrivare a un giusto compromesso – nel caso del cognato Willard “Butch” Marsh (anche lui autore, soprattutto di racconti pulp e di fantascienza, nonché di un romanzo che ebbe un discreto successo all’uscita, nel 1965, da Harper & Row: Week With No Friday, sulla vita bohémien degli scrittori e artisti americani espatriati in Messico negli anni Cinquanta e Sessanta). Una questione altresì all’origine di continui battibecchi epistolari tra i due.

Mi permetto allora di citare due pagine rappresentative su questo tema, che evidenziano le differenti filosofie di vita e di scrittura di Williams e del cognato, e in certo senso illustrano pure la maggiore maturità – per non dire la netta superiorità intellettuale – del primo rispetto al secondo.

«Come va, per davvero?», scrisse Ken Smart dall’Università di Miami all’inizio del 1949. «Che cosa hai in mente per il futuro? Cioè, hai mai pensato seriamente di insegnare, ti piacerebbe scrivere per mestiere, o sei uno dei tanti che si accontentano di fare piani solo per le prossime dieci ore?».

Williams, di nuovo sposato, si destreggiava adesso su tre fronti: scriveva narrativa e poesia; lavorava come redattore in una piccola casa editrice; e, proseguendo con la scuola di specializzazione, stava probabilmente gettando le basi per una carriera universitaria. Dei tre, l’insegnamento a livello universitario gli appariva sempre di più come una base stabile, che gli avrebbe anche lasciato il tempo per scrivere. D’altra parte, non pensava che insegnamento e scrittura interferissero fra loro. «Dio mio, da quando in qua lavorare per vivere è svendersi? Scrivere non è qualcosa che si fa nella mente di Dio o in qualche astrazione; si scrive nel mondo, in una stanza, su un tavolo, con una macchina da scrivere o una matita. Bisogna mangiare per vivere; e se mangiare bene ti distrae dalla scrittura meno del mangiare male, allora meglio mangiare bene»[1]. Inoltre, l’insegnamento contribuiva a costruire l’identità di un uomo di lettere, una persona che capiva i testi letterari, la scrittura creativa, i periodi storici dell’arte e via dicendo; non come suo cognato, convinto che bastassero talento, ispirazione e tempo.

«Voi ragazzi di Denver non sapete che vi perdete non mandandomi una cassa di moscato e un registratore», si divertiva a sparare Butch, punzecchiando di nuovo John a proposito di Swallow Press e dei suoi autori cerebrali. «Potrei sfornare pagine di fantasia in tono gioioso; e voi potreste venderle non in smilzi pamphlet, ma a canestri pieni, facendo una fortuna»[2].

Williams ignorava le battute di scherno del cognato, convinto com’era che uno scrittore dovesse essere più colto di uno studioso qualunque. Un dottorato e l’insegnamento gli avrebbero sicuramente fornito ciò di cui aveva bisogno per raggiungere quelle vette che lui cercava lavorando «in una stanza, su un tavolo, con una macchina da scrivere».

(pp. 106-107)

Mentre Williams lavorava, Butch Marsh gli scrisse una lettera. Con una caraffa di daiquiri a portata di mano, buttò giù tre pagine di aggiornamenti, in una sorta di flusso di coscienza il cui succo era che si trovava a metà carriera e ancora arrancava. Week With No Fridays era uscito anche in edizione tascabile e ora faceva bella mostra di sé sulle rastrelliere dei libri nelle stazioni degli autobus e nei drugstore, ma l’editore Harper & Row aveva rifiutato il suo secondo romanzo, quello ambientato a San Francisco, di conseguenza era nuovamente in bolletta.

Da più di vent’anni, da quando nel 1945 aveva lasciato l’Army Air Corps, Marsh scriveva al calore bianco – racconti, poesie, romanzi – convinto che fare l’autore a tempo pieno fosse un po’ come giocare alle corse dei cavalli: spalmando le scommesse. Un testo per cui ti ci volevano mesi magari non riuscivi a venderlo, ma un racconto che avevi sfornato in un giorno poteva anche fare il colpaccio. Negli ultimi tempi, però, la fortuna non lo assisteva più. Così, per quanto poco gli piacesse, stava pensando di tornare a insegnare negli Stati Uniti.

Da quando si conoscevano, i due cognati litigavano su un punto: non su chi scrivesse meglio, ma sul fatto di insegnare e scrivere. Butch vedeva l’insegnamento come un ripiego, pur essendo bravo. Ovunque avesse fatto il docente – al Winthrop College, all’Università dell’Iowa, alla University of Southern California – aveva ricevuto ottimi giudizi e complimenti lusinghieri. Ma quando insegnava non riusciva a scrivere.

John, al contrario, non riteneva le due occupazioni inconciliabili. «Non c’è conflitto tra i due ruoli, davvero, salvo quello inevitabile del tempo, il tempo per dare il meglio in entrambi i mestieri, ognuno dei quali è piuttosto impegnativo. Per tanti versi, un ruolo sostiene l’altro: come insegnante sono pagato per pensare e discutere con altre persone, i cui interessi sono della massima importanza per me come romanziere; come romanziere posso conferire una certa autorevolezza a ciò che ho da dire sulla letteratura».

Secondo John, forse il problema di Butch erano semplicemente le troppe poche scelte a disposizione. «Come molte “libertà”, la libertà che uno pensa di trovare in Messico può essere una specie di prigione; cioè, anche se sei libero di fare delle scelte lì, il numero delle scelte possibili è abbastanza limitato». Lo invitò dunque a spedire un curriculum ad almeno cinquanta università. Se lo avessero invitato per un colloquio, era quasi certo che il posto sarebbe stato suo, «a meno che non pisci sul pavimento o ti metti troppo rossetto». Non si perdeva nessuna faccia a insegnare: «ti aiuterà come scrittore, ed è una vita decente»[3].

Marsh rispose che ci avrebbe riflettuto.

(pp. 239-240)

Dicevo sopra che questo è uno dei temi che mi hanno preso di più nel corso della traduzione. Perché? Io non scrivo né insegno, come facevano Williams e il cognato; però traduco e allo stesso tempo faccio l’agricoltore (o almeno ci provo). Il tutto per scelta e per necessità.

Se vogliamo: il traduttore per passione e vocazione (è un mestiere che mi si confà intellettualmente e caratterialmente); l’agricoltore per necessità e passione (nato e cresciuto in un contesto contadino, se non mantenessi il contatto con la terra, smettendo di lavorarla in prima persona, con ogni probabilità non sarei più me stesso).

La difficoltà di conciliare i due mestieri c’è, in ogni caso. A volte un buco nell’uno ti permette di seguire meglio l’altro; ma capita anche che l’uno e l’altro ti impegnino contemporaneamente e pesantemente. E quando questo succede, può diventare tutto molto complicato, non riuscendo a prestare a nessuna delle due attività quella dedizione intensa, assidua e protratta che è alla base della loro riuscita.

Ci sono per esempio situazioni come quella di questi giorni di forti nevicate su tutta fascia montana e pedemontana tra Abruzzo e Marche, con disagi (in primis l’interruzione di corrente) e danni a non finire, in cui davvero ti ritrovi impantanato fino al collo su un fronte come nell’altro; allo stesso tempo fiaccato fisicamente e provato mentalmente, alle prese con emergenze materiali che fanno passare ogni discorso intellettuale (nel mio caso la traduzione) in secondo piano.

In generale, però, quando non ci sono sovrapposizioni troppo marcate, o quando si riesce a stabilire e seguire una tabella di marcia con buoni margini di flessibilità, un mestiere aiuta ad affrontare meglio l’altro, creando delle camere di compensazione senza le quali la vita sarebbe probabilmente molto più triste o più povera o, senza ombra di dubbio, più schizzata.

Sono dunque dalla parte di Williams, più che del cognato Butch.

[1] Martha Hume, “Artist of Diversity: John Williams”, «Dust», inverno 1966, p. 18.

[2] Marsh a Williams, 20 gennaio 1949.

[3] Williams a Marsh, 11 ottobre 1967.