Così non va

[Mettendo assieme un po’ di cose delle ultime settimane, in ordine sparso, via Twitter e/o via Telegram. Cosa viene fuori?]

La percezione che gli ultimi dieci anni avessero visto un degrado impressionante della vita sociale, e questo a causa soprattutto dei social, c’era già. Che a questa conclusione ora giunga uno psicologo sociale come Jonathan Haidt chiude il discorso: i social ci hanno fatto male.

Provando viceversa a immaginare una storia alternativa per gli ultimi dieci anni (compreso un ruolo dei social non disgregativo, ma più sulla falsariga degli inizi, ancora senza algoritmi, like, sharing e retweet, senza manipolazioni) oggi dove saremmo potuti essere? Cosa ci siamo persi?

Più che i social, comunque, a guastare il buono che internet aveva sostanzialmente rappresentato in precedenza, a metterci sul serio su una cattiva strada, è stato lo smartphone. Finché potevi accedere a internet solo da un desktop o un laptop, ancora si ragionava; dopo, delirio.

È l’abbinata smartphone/tablet + social, insieme alla possibilità di connessioni sempre più veloci e ovunque, ad aver cambiato la storia (e non solo quella di internet) di questo inizio del nuovo millennio; senza, forse vivremmo ancora la fase di felice innamoramento per la rete.

A questo punto, tornare indietro non si può; allo stesso tempo, andare avanti senza che intervengano correzioni significative significa rischiare grosso.

Il rischio principale, credo, è ritrovarsi sempre più frantumati; incapaci nei fatti di un confronto e un dialogo costruttivi; incapaci di mettere da parte qualche differenza in vista di interessi superiori; dunque, anche più soli e inermi, esposti a pericoli multipli.

Possibile rimedi, allora? Be’, al primo posto metterei chiaramente un ridimensionamento della vita social, virtuale, a beneficio di una più sociale, reale, fattuale. E seppur con i suoi limiti e rischi, riabbracciare una vita di comunità, anziché stare solo in community online.

Una comunità come poteva intenderla Adriano Olivetti: «concreta, tangibile, […] non troppo grande né troppo piccola, territorialmente definita», nel «rispetto della personalità umana, della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori».

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via», scriveva Cesare Pavese. Parafrasandolo, potremmo anche dire: una comunità ci vuole, non fosse che per il gusto di contestarla.

È in salute il (nostro) mondo? A me dà tanto l’impressione di un organismo che fino all’altro ieri non se la passava così male, malgrado tanti stravizi, malgrado si curasse poco di sé. Poi, da un giorno all’altro, un principio d’infarto, perdite di sangue, fiacca, problemi à gogo.

Non bastava la guerra di Putin in Ucraina: ora anche la guerra di Musk per il controllo di Twitter.

Se ci riesce, buon per lui: in tanti ce ne faremo una ragione, troveremo un altro posto dove ammazzare il tempo, e non necessariamente qui in rete. Invece, con buona probabilità non si verificherà né la prima né – peccato – la seconda ipotesi: continueremo in questa dipendenza.

Ma almeno per Pasqua stop: via da qui. Detox!

Nulla è mai come sembra. Diffidare, allora, diffidare sempre. Di questi tempi soprattutto. Tempi che andranno ricordati per un’erosione costante della fiducia. Fiducia che, persa, riconquisti solo a fatica. Così, io dubito, tu dubiti, e ognuno crede e fa credere quello che vuole.

Sul mondo, sulla vita di uomini e donne, grandi e piccoli, era calata una devastante tristezza. Non c’era più l’animato fervore né la pacifica spensieratezza di tempi non troppo lontani. Quasi tutto congiurava verso uno stare, giorno dopo giorno, sempre più soli, sempre più male.

“Travel is psychoanalysis that starts in a specific moment of time and space. And […] no one should get beetween you and a distant shore: not even a loved one. Originality emanates from solitude: from letting your thoughts wander in alien terrain.” Robert D. Kaplan, “Adriatic”

Il brutto dei giorni in cui è d’obbligo fare cose che non hai modo di fare negli altri giorni. Il bello di quelli in cui fai come meglio ti senti di fare.

Pasqua è andata. Non così spenta e desolante come si poteva temere. Non così allegra e vivificante come si poteva desiderare. Una Pasqua di ripartenza in parte; una Pasqua sempre assillata da un clima fortemente negativo, tra notizie di guerra e crisi che non se ne vanno.

Gioia sui volti delle persone? Sollievo più che altro: per essere ~ fuori dalla pandemia; e per vivere in un pezzo di mondo che si può ancora ritenere un mezzo paradiso, specie a confronto di altri. Bisogno allora di tornare a concedersi svaghi; bisogno di riprendere a camminare.

In ogni caso la consapevolezza che, pur messi meglio di altri, e magari un po’ meglio rispetto a qualche tempo fa, la strada davanti a noi è sempre molto insidiosa, strapiena di incognite e ostacoli, e nulla si può dare davvero per scontato. Sollievo, allora, e insieme cautela.

Ci sono momenti, nella vita, in cui non riesci più a tenere tutto assieme in un unico posto; ci sono cioè momenti in cui si hanno biforcazioni, se non tripartizioni. Bisogna allora dividere e dividersi: una cosa di qua, unʼaltra di là; un quaderno per questo, un altro per quello.

Per dire: il gran calderone, il tutto indistinto di ciò che un utente generico riversa su un social qualsiasi, frutto dei suoi interessi, delle sue passioni e anche delle sue (pre)occupazioni del momento, quanto a lungo può reggere? E soprattutto: ha un senso, è utile, giova?

In sostanza: giova avvalersi di una sorta di gigantesco frullatore che sminuzza e miscela qualsiasi materiale uno abbia da proporre, per offrire alla fine un beverone che in prevalenza non sa né di questo né di quello, non è particolarmente buono ed è anche assai poco digeribile?

C’è Edgar Morin che teme sia «in formazione un enorme tsunami». Io non so se sia così; so solo che non è un periodo dei migliori, e il timore concreto è che nell’immediato possa andare ancora peggio. L’umore è dunque pessimo, o comunque poco incline a lasciarsi andare a previsioni ottimistiche.

Ed è anche vero che, a badare solo a quello che arriva da buona parte di social, tv e anche stampa, lo stato d’animo non migliora, né può migliorare: se non sei già pessimista di tuo, finisci per diventarlo; e se non hai una pessima opinione di tanta gente, te ne fai presto una.

Siamo dunque peggiorati così tanto negli ultimi tempi? Migliorati di sicuro no, o comunque non quanto avremmo dovuto e anche potuto sulla base delle nuove risorse e dei nuovi strumenti a nostra disposizione: il quadro generale mostra soprattutto un perpetuarsi dei nostri limiti.

In conclusione, come non è vero che era meglio quando era peggio, non si può dire che il meglio metta automaticamente fine a tutto il peggio, o che dal meglio non si possa qua e là ricadere nel peggio.

L’opera di miglioramento richiede un lavoro continuo, incessante, metodico, capillare; non ammette scorciatoie; non ammette soluzioni facili, sbrigative, alla meno peggio; non ammette non farsi carico dell’impegno e anche dei sacrifici necessari per superare problemi e ostacoli.

Vogliamo allora che migliori, anziché peggiori, come c’è il rischio che succeda? Dobbiamo tutti tornare a fare di più e meglio, non ponendoci a priori limiti su ciò che siamo capaci di fare. Dobbiamo entrare nell’ottica che «si può dare di più senza essere eroi», come da canzone.

Se c’è una costante nella vita è quella di provare: ne tentiamo di tutte, se solo abbiamo un desiderio di andare avanti, se non ci piace la condizione in cui siamo, se non vogliamo essere da meno ad altri. Prove su prove allora: qualcuna riuscita, tante abortite, altre rimpiante.

Voglia di rimettere un po’ mano al vecchio sito-blog, fermo da oltre tre anni, fermo a un post in cui parlavo dell’ingresso in un’altra età, secondo me, quello che poi di fatto è avvenuto, con la pandemia prima e la guerra in Ucraina ora. Sì, un’altra età.

E quanta ruggine accumulata nei 3 anni e passa che non accedevo alla bacheca di WordPress e al pannello di controllo di cPanel; e quanta fatica, ora, a rifamiliarizzare con strumenti un tempo abbastanza ben padroneggiati. A imparare ci vuole; disimparare è questione di un niente.

A questo punto, anche riprendere a scrivere in maniera un po’ meno frammentata, fuori dallo schema di frasi massimo di 280 caratteri, al limite concatenate tra loro, richiederà un impegno importante. Ma è un importante gesto di ribellione alla tirannia del breve, e va compiuto.

A proposito del sito e di testi non brevi: la ripubblicazione dell’intervento più lungo e articolato da me mai scritto in tema di traduzione: le risposte a un questionario per la rubrica “Note al traduttore” su tempoxme.it, agosto 2015.

Puoi non provare a stare un po’ anche su Telegram?

Da quando nel settembre 1995 hai iniziato a usare internet, hai frequentato un po’ tutte le piattaforme via via in voga: da alcune facendotene prendere di più (mailing list e blog), altre assai meno, o comunque nutrendo sempre parecchie riserve (i social, Facebook in particolare).

Da ultimo, sei stato soprattutto su Twitter; ma con la pandemia prima e la guerra in Ucraina poi, è cominciato a diventare un posto sempre meno vivibile, sempre più irritante, sempre più stancante.

Da qui la decisione di vedere un po’ come funziona anche questo Telegram. Da qui pure l’idea di tornare a mettere mano al sito-blog, fermo da oltre tre anni, e rimpolparlo di qualche contenuto.

Domani, 24 aprile, due mesi dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio. Due mesi che – con il loro drammatico carico di morte e devastazione, con le laceranti tensioni innescate nei rapporti tra gli Stati direttamente o indirettamente coinvolti, con le pesanti ricadute economiche a livello pressoché globale, e anche con l’aspro accendersi dei sentimenti e dei toni polemici tra opposti schieramenti nell’opinione pubblica, a partire dalla rete – hanno condotto l’umore generale delle persone a un deterioramento come nemmeno nei peggiori momenti dei due anni della pandemia da Covid19 ancora in corso.

Dopodomani, 25 aprile, 77esimo anniversario della Liberazione, dovrebbe come ogni anno essere un momento di festa e unione; come è spesso avvenuto negli ultimi tempi, ma questa volta più che mai, sarà invece occasione di accesi contrasti e polemiche, all’insegna di massimi distinguo, della massima disunione.

Di clima di festa scordiamocene pure: non solo per questo 25 aprile, ma ancora per molto tempo a venire, finisca o no presto la guerra in Ucraina.

Il 25 aprile era tardi, l’una abbondantemente passata, quando sono arrivato a Ceppo di Rocca Santa Maria (TE), dove il 25 settembre 1943 si svolse la Battaglia di Bosco Martese, il primo scontro in campo aperto tra partigiani e tedeschi. Avrei voluto fare l’intero percorso fino alla cascata della Morricana, ma data l’ora sarò arrivato più o meno a metà, poi ho rigirato. Comunque, bella e salutare camminata.

Lungo il tragitto, in un bosco splendido di faggi e abeti, oltre a continue cascatelle e qualche escursionista, padre e figlioletto in bici, col primo che dice: “Sai, non fa bene stare in un ambiente troppo asettico: al minimo contatto con germi patogeni ti ammali”. Bravo padre.

Il giorno dopo il 25 aprile… vorresti fosse ancora il 25 aprile. Vorresti essere ancora nei luoghi della Resistenza, non ultimo perché, naturalisticamente parlando, in genere di una bellezza unica, che riconcilia con il vivere. Luoghi di morte, ma anche di rinascita, di vita.

Luoghi spesso pervasi di solitudine, poco frequentati: la massa si ferma in genere al punto di ristoro più vicino, pochi quelli che si inoltrano per boschi e sentieri, ancora meno quelli che onorano un monumento, una lapide, un cartello commemorativi.

Ma la solitudine è buona in tanti casi, dunque non va disprezzata, al contrario scelta, persino desiderata. Nella solitudine rientri in contatto con te stesso, con ciò che ti prende più nel profondo, con la tua anima vera, se solo sei immerso nell’ambiente giusto.

Camminare allora per boschi e sentieri di montagna, in perfetta solitudine, scambiare giusto un “Salve!” con i pochi che incroci e proseguire tranquillo per la tua strada, in silenzio, senza dare gran peso a ciò che ti angoscia, lasciandoti anzi alle spalle i pensieri angosciosi.

Affermare che oggi, fine aprile 2022, siamo suppergiù gli stessi di fine 2018, che da allora non è cambiato nulla di sostanziale, che risvegliandoci in questo preciso momento da un ipotetico sonno durato oltre tre anni non riscontreremmo nulla di anomalo nel mondo intorno a noi e anche in noi stessi, sarebbe dire un’enorme panzana.

Allora, con che spirito riavviare le “trasmissioni” di un blog fermo appunto a fine 2018? Lasciando stare ogni tentativo di riepilogo della situazione, riprendendo  così come viene, e strada facendo cercando di migliorare il tiro, di raddrizzare il raddrizzabile, di trovare soluzioni via via più confacenti.

L’importante è riprendere intanto il cammino.

Musk che [salvo ripensamenti] si prende tutto Twitter, in contanti, togliendolo dalla borsa valori. Noi come dovremmo prendere la cosa? Con apprensione, con gioia, con gratitudine? Io propenderei per la 3: magari ci spingerà a ridimensionare l’uso di questo mezzo, a cercare e fare altro fuori di qui.

Bene o male, abbiamo avuto tutti i nostri 15 se non i nostri 150 o addirittura i nostri 1500 follower, suppergiù l’equivalente odierno dei quindici minuti di popolarità profetizzati a suo tempo da Andy Wharol. A questo punto potremmo anche tornare a occuparci più degnamente di altro, no?

Il problema, forse, è che “l’altro” che esiste fuori di qui, nelle nostre vite quotidiane, non è così entusiasmante, in parte o in toto: se lo fosse non sentiremmo così spesso il bisogno di andare su un social a leggere, a condividere, a dire, a commentare, a criticare, talora a berciare.

Andrebbe poi anche chiarito se siano stati di più i social a fare male a noi, o all’opposto se siamo stati di più noi, con i nostri problemi pregressi, le nostre insoddisfazioni, i nostri limiti caratteriali e umani a guastare strumenti pensati in origine per esserci di aiuto.

Ci vorrebbe: un buon libretto da tradurre, max 200 pagine, e un bel posticino nel verde e assolato, magari un piccolo chalet, dove passare una mesata un po’ traducendo, un po’ camminando nei boschi, un po’ scambiando qualche parola con gente del posto, sconosciuta. Rigenerazione.

Bisogno in generale di ritrovare stimoli e spinte negli ultimi tempi/anni andati parecchio a calare, per contingenze multiple. Le energie migliori risucchiate da reiterate emergenze, forte ora la necessità di tornare a mettere al centro la propria persona, le proprie passioni.

Il momento non aiuta, in giro è tutta un’incertezza, tutto un problema, tutto un dover fare i conti con situazioni che non garantiscono pace. Ma è pur vero che è quasi sempre stato così; quindi, tanto vale non farsi sopraffare dai brutti pensieri e cercare di stare un po’ meglio.

Nel libretto in corso di lettura, dal francese, uno dei personaggi dice: «Ho sempre pensato che la traduzione fosse un lavoro difficile e che ci volesse una pazienza infinita per lavorare con le parole». Concetto che l’autore, al contempo traduttore, non poteva non ribadire.

Mattina e primo pomeriggio da prima tintarella, crema solare in viso, bermuda e torso nudo, superati di gran lunga i venti gradi, quasi rischio d’insolazione. Secondo pomeriggio più in linea col mese di aprile, necessari pantaloni lunghi e doppio strato superiore. Strano tempo.

Bel libro tra le mani, in ogni caso, e giornata suppergiù riuscita, trascorsa in gran parte all’aperto, con poco spazio alle news. L’umore se ne giova.

Se per un giorno riesci a sottrarti a una tristezza di fondo, facendo qualcosa che a suo modo ti riavvicina a un tuo mondo ideale, è possibile che per un paio di giorni ne avrai benefici; ma senza altro a puntellare quel poco di benessere acquisito, tornerai presto a dovʼeri.

Cioè, per affrancarsi sul serio da una condizione riconosciuta di tristezza non sono sufficienti momenti episodici di piccola o grande felicità; giorno dopo giorno, piuttosto, sono necessari segnali che qualcosa funziona, che qualcosa va migliorando, che qualcosa di positivo cʼè.

Ma oggi, in genere, questi segnali positivi quanto sono forti, o quanto sono numerosi, giorno dopo giorno, a livello personale, a livello collettivo? Abbiamo avuto, ed è ancora in corso, una pandemia da Covid19; non ignorerei però che stiamo avendo anche unʼepidemia di tristezza.

Epidemia di tristezza esplosa con il Covid19 (con tutti i suoi morti, tutte le restrizioni, tutti i problemi collegati) e rinfocolata adesso con la guerra in Ucraina (con tutti i suoi morti, tutte le atrocità, tutte le devastazioni e anche tutte le ricadute), ma già preesistente.

– Da 1 a 10, quale ti sembra il livello di felicità medio delle persone che vedi intorno a te, che frequenti, che ascolti, che leggi, che in vario modo osservi?
– Tra 5 e 6; oltre no.
– E il tuo?
– Ancora più basso, tra 4 e 5.
– Pessimista per presente e futuro?
– Hai voglia!
– Lʼultima volta che hai pensato che le cose non stessero così male, che ci fossero ancora margini di recupero, che lavorando sodo, bene, si potessero ancora raggiungere risultati importanti?
– Forse il 2016-17, malgrado terremoti e via dicendo.
– Poi?
– Poi, crescente tristezza.
– Malgrado le buone traduzioni e riedizioni (Vollmann, Kennedy, Reich, Wagamese) dellʼultimo paio di anni?
– Sì, malgrado quelle: episodi e nulla più. Non quel continuum di piccole gioie semi quotidiane capaci di tirare su.
– E allora?
– Allora stanchezza e noia, i.e. tristezza.
– Non ti pare di esagerare con questi tuoi crescenti toni di acceso pessimismo?
– Sì e no. Ribadisco: ci sono episodi che potrebbero anche far pensare che non va tutto così male, che cʼè ancora spazio per il buono e il bello; ma vedo restringersi sempre più i segnali positivi.
– Se è questione di cogliere maggiori segnali positivi, magari è il caso di riposizionare o ritarare le antenne ricettive, magari è il caso di cercare segnali provenienti anche da altre parti, di cambiare insomma qualcosa, di provare altre frequenze.
– Può essere: così non va.