Il vuoto

Quando ci siamo in mezzo, quando ne siamo subdolamente ma prepotentemente risucchiati, non che non ce ne accorgiamo del “vuoto”, non che non ne sentiamo il peso e l’oppressione. Ma mezzo anestetizzati dal tumulto quotidiano, mezzo imbambolati, di fatto mezzo rincoglioniti, procediamo come per inerzia, con il pilota automatico. Come amavi dire un tempo, “senza dolore o grande soddisfazione / fra un biascichio di noia / in cerca di serenità”.

Ma nel momento in cui riusciamo a venirne fuori, se siamo sufficientemente fortunati o caparbi o sconsiderati o se qualche episodio traumatico ci ritrascina a forza alla realtà, torniamo anche ad aprire gli occhi e allora tutto ci appare sotto una luce nuova. E forte è lo stupore per come sia stato possibile trascinarsi tanto a lungo in quella infida e umiliante condizione, per il troppo tempo che ci si è lasciati scivolare addosso la vita con estrema indolenza, in preda a un sordo malessere.

[…] Mi piacerebbe molto dire che non ricordo neanche i mesi successivi, gli anni successivi, tutto quel tempo tra le due lettere di Katharina, ma una cosa del genere la dici in fretta, e solo dopo averci pensato per un attimo ti ricordi di molte cose e io ovviamente mi ricordavo in particolare di molte cose e mi ricordo ancora che ho lavorato, mi ricordo ancora i nomi e le storie delle malattie, mi ricordo ancora di alcune voci provenienti dalla sala d’aspetto e della festa d’estate e dell’esibizione del coro misto, canzoni dei Beatles, a più voci, anche di questo mi ricordo ancora. […]
Questo è chiaramente meglio di niente, e durante quel periodo non avevo neanche la sensazione che non fosse niente, che niente si fissasse, mi ricordo anche di questo, ma adesso quegli anni sembravano a un tratto terminati, adesso sono gli anni tra le lettere di Katharina, e improvvisamente sono solo un vuoto. E ovviamente ho pensato spesso a Katharina e Konrad, ovviamente le cose e i luoghi sono popolati da loro, è inevitabile, e all’inizio per un attimo hai un sussulto, ma poi quel sussulto cessa, perché ti ci abitui, perché la vita va avanti e un vuoto si vede bene solo da fuori.
Lo stupore comincia più tardi, e ti stupisci di come velocemente ti rassegni comunque alle circostanze, che non sarebbero mai dovute diventare tali, al massimo fasi, episodi, time out e adesso sulla spiaggia, qui dopo questi giorni, niente appare più sconcertante che avere aspettato così a lungo, perché da fuori ogni vuoto sembra superfluo. […]

Tilman Rammstedt, A portata di mano, traduzione di Carolina D’Alessandro, Del Vecchio Editore, Roma 2012, pp. 36-37.