Frammentario politico-esistenziale 2013

Un riepilogo sommario di quanto sono andato appuntando/citando/commentando/rimando in materia perlopiù politico-esistenziale in questo non entusiasmante 2013, soprattutto tra gennaio e aprile, i suoi mesi sicuramente più “schizzati” (anche se gli ultimi, a partire da settembre, di nuovo non scherzano a “impazzimenti” vari). Un periodo di indubbio frastornamento generale, ma al quale devo comunque un piccolo debito di gratitudine: avermi in un certo senso spinto a riscoprire la poesia – quella intorno a noi come quella dentro di noi – e anche a ricominciare a giocare con rime e versi, non importa se banali, in uno sforzo di esprimere con la massima economia di parole i pensieri e i sentimenti suscitati da un vivere quotidiano spesso non dei migliori.

***

(4 gennaio)

Riprendere l’autobus dalla città al paese, dopo non si sa quanti anni, avendo lasciato l’auto dal meccanico a sostituire il radiatore e sistemare l’impianto dell’aria calda. Attendere con calma davanti alla storica edicola, prendere «Le Scienze» con l’allegato La felicità della ricerca, prendere «Il Messaggero» a 50 centesimi. Sentire che all’auto e in generale alle moderne tecnologie in certe circostanze si può rinunciare senza grande fatica; alla compagnia e agli stimoli della parola scritta e della carta stampata molto meno.

(8 gennaio)

Alessia Glaviano, su «Linkiesta:

Quante parole leggiamo tutti i giorni fra articoli, agenzie, blog, post, tweet… Cosa resta? Cosa ricordiamo? Cosa attira la nostra attenzione? […] non è la tecnologia il male assoluto ma l’uso che se ne fa.

(9 gennaio)

L’impressione (la primissima impressione) è che anche da questa tornata elettorale scaturirà poco di buono: le logiche in azione sono suppergiù le stesse di sempre, senza che si segnalino svolte autentiche, non di mera facciata. Toccherà di nuovo turarsi il naso e votare il meno peggio di leader e schieramenti, soprassedendo quasi del tutto sui candidati. Nella speranza che il prossimo parlamento abbia quantomeno la bontà e la decenza di cambiare questa pessima e odiosa legge elettorale, se proprio di altro (e c’è da temerlo, visto le premesse) non sarà troppo capace.

(10 gennaio)

Giacomo Sartori, su «Nazione Indiana»:

Il mondo evolve, è normale. Le difficoltà sono per quelli che sono un po’ rimasti attaccati al passato e un po’ no, quelle vie di mezzo che per nostalgia o altro fanno fatica a incenerire le vecchie credenze, pur avendole sempre osteggiate. Come per esempio il sottoscritto.

Me too.

(11 gennaio)

Non hai visto (che bella la storia di Zagor su Rai5), non hai sentito. Riuscissi anche a non leggere, sarebbe un trionfo. Presto o tardi, tanto, «del tempo che fu / svanisce il ricordo / col tempo che fa».

(11 gennaio)

Franco Arminio, su Facebook:

I paesi dell’Appennino sono pieni di anziani che quando stanno bene sono soli, quando stanno male sono in mano a una medicina che quando deve muoversi tra le macerie non lo sa più fare con le mani, sa muoversi solo con le ruspe. Un mondo prezioso se ne va ogni giorno e pare una questione che riguarda solo i parenti e invece è una perdita collettiva e irreparabile.

(11 gennaio)

Perso lo smalto, perso lo slancio, perso l’afflato, perso l’incanto. Persi il bisogno, l’ingegno, il ritegno; rimasti l’indegno e lo sdegno.

(12 gennaio)

«Ci fotte la guerra che armi non ha, ci fotte la pace che ammazza qua e là…», cantavano Lindo Ferretti e i C.S.I. in Cumpe vampe. A noi italiani ci fottono un sacco di altre cose; su tutte, un’ottusa, stolida mentalità.

(12 gennaio)

Volgarità vs eleganza (via Brain Pikings):

Debbie Millman: Why do you think people are fascinated by vulgarity?
Massimo Vignelli: Because it is easier to absorb. Elegance is about education and refinement, and it is a by-product of a continual search for the best and for the sublime. And it is a continuous refusal of indulging in anything that is vulgar. It’s a job.

(14 gennaio)

Già queste elezioni qui sono un mezzo incubo, per quanto si cerchi di non pensarci, non leggerne, non guardare i politici (?) in tv; si dovesse andare di nuovo a votare nel giro di un anno, come ipotizza qualcuno, incubo totale.

(14 gennaio)

  • ogni due per tre / nella mancanza di te / la tazza di tè

(15 gennaio)

Ci dovrebbe essere più convinzione, ci dovrebbe essere più partecipazione, più disposizione, nel caso in cui ci sia di nuovo qualcosa che non va. Se le cose non stanno così allora è meglio finirla adesso.

Tilman Rammstedt, A portata di mano, traduzione di Carolina D’Alessandro, Del Vecchio Editore, Roma 2012, p. 21.

(17 gennaio)

Checché ci piaccia pensare il contrario, siamo tutto meno che fermamente razionali nelle nostre scelte. Da qui la spiegazione di tante cose… E anche se da un lato oggi la rete migliora probabilmente le scelte, dall’altro c’è il rischio che ci renda anche più pigri e conformisti, più inclini alla mentalità del gregge e più esposti al panico che si scatena nelle situazioni di forte instabilità.

(17 gennaio)

Detox, detox, detox yourself… from the allure of life on the Net. Facilissimo a dirsi. Ma un’impresa pressoché impossibile, mancando di carattere. Perché appena ci ricaschi, dopo ogni piccola pausa, trovare la forza di staccare e mantenere una giusta distanza diventa sempre più duro. A oggi la cosa più semplice, malgrado il pessimo punto di partenza, è stato ridurre al minimo le email, lette e scritte. La passione per giochi, chat e cavolate varie per fortuna non c’è mai stata. Ma sottrarsi al richiamo di questo o quel link, questa o quella foto o frase, che fatica. E se la domanda è «Ma sottrarsi perché? Basta fare tutto con la giusta misura», la risposta è che la “giusta misura”, anzi proprio l’idea di “giusto”, varia da persona a persona, è tra le cose più soggettive che ci siano (oltre a variare da momento a momento). Non esiste, quindi, un modo “giusto” e univoco di rapportarsi alla rete: dipende dalle persone. C’è chi riesce a viverla serenamente (e buon per lui/lei), e chi la vive in modo conflittuale, amandola e odiandola di pari passo perché crea in lui/lei una forte dipendenza che ne esalta allo stesso tempo i lati migliori e peggiori. E se senti di appartenere alla seconda categoria, allora senti anche il bisogno di periodiche “disintossicazioni” o prese di distanza, per riguadagnare una giusta misura, la tua giusta misura del momento.

(22 gennaio)

Bisogna in genere svalicare la prima metà di gennaio – meglio, la prima ventina – per cominciare a sentire di essere davvero nell’anno nuovo; perché scrivendo a mano la data si indichi ormai senza esitazioni l’anno corretto. Prima, gli strascichi delle nebbie e apatie autunnali e di feste di Natale spesso mal digerite sono sempre all’ordine del giorno. Prima, il freddo non è ancora così prolungato, intenso e stimolante sulle nostre sponde medioadriatiche, mentre i minuti di luce riguadagnati sono ancora troppo pochi. Prima, siamo ancora troppo presi da consuntivi, propositi e riordini, poco e niente portati all’azione decisa, pugnaci.

(28 gennaio)

Non c’è quasi più niente,
più niente che funzioni.
Stiamo andando a rotoloni.

Nell’ex paese risplendente
un vero branco di pecoroni
mentecatti intrallazzoni.

Da non credere un bel niente
quando parlano sti zozzoni,
sapienti dei miei coglioni.

(28 gennaio)

La bontà ancora, per gli scrittori, degli schedari fisici, delle cartelline, della carta, degli elenchi via via aggiornati a penna o matita. L’intimità e il calore, soprattutto, delle cose ancora scritte a mano.

(29 gennaio)

Un inizio d’anno che, davvero, sembra essere tutto un addio. Anche nel mondo della traduzione.

(29 gennaio)

Nell’era di Twitter, degli slogan, del rapido e facile, del solipsismo, la crescente popolarità delle maratone di lettura, delle letture di gruppo, del lungo e difficile!

(31 gennaio)

Spesso, quel nostro essere (stati) adolescenti fuori – ma molto fuori – dal tempo massimo, nella vita reale, quasi solo perché, da non nativi digitali, a tutti gli effetti pratici ancora adolescenti in quella virtuale.

(1 febbraio)

Sarà da ridere – e allo stesso tempo da piangere – quando nella sera di lunedì 25 febbraio si prenderà atto delle reali dimensioni dell’affermazione del movimento di Grillo, e poi quando all’apertura del nuovo parlamento si presenteranno alle porte di Montecitorio e di Palazzo Madama, con sorriso trionfante e strafottente, decine e decine di emeriti sconosciuti. Mi sa che si sta proprio sottovalutando il ciclone che a breve si abbatterrà sui palazzi romani: senza lontanamente fare l’apologia di Grillo, temo che a urne chiuse potrebbe andare ben oltre il 15% dei consensi. A quel punto, non bisognerà farci i conti?

(4 febbraio)

Non fosse per le corse continue, i ritardi, i regionali risicati nei festivi e i trenta chilometri da fare comunque in macchina per arrivare a una stazione ben servita, varrebbe la pena di viaggiare più spesso in treno. Non solo per il risparmio su benzina e pedaggi, la maggiore rilassatezza, la possibilità di leggere qualche pagina di libro o giornale e di godere il paesaggio (laddove non è tutta una distesa di case, capannoni e asfalto). Soprattutto per le persone con cui si condivide anche un breve tratto, le loro facce, le voci, i gesti, i caratteri che vengono fuori. Per esempio, come dimenticare stamattina la studentessa seduta di fronte a te e che al passaggio del controllore scopre di non avere rinnovato l’abbonamento mensile ed è lì per scoppiare in lacrime ma il controllore la tranquillizza, le dice di non piangere, per oggi non fa niente, magari, se non ha con sé i soldi per l’abbonamento, faccia per sicurezza il biglietto per il ritorno.

(4 febbraio)

Perché dev’essere così difficile, oggi, far seguire alle parole i fatti, che tante volte potrebbero ridursi a un meditativo e alacre silenzio, con il vantaggio di non incrementare il già cospicuo e debilitante rumore di fondo?

(4 febbraio)

Sei ombelicale, dice. Come tutti oggidì. Pensa per te, dice.

(5 febbraio)

  • a forza di byte / un corpo che ha fame / fame di corpo

(6 febbraio)

L’Italia maglia nera a livello europeo per la cementificazione? Bastava e basta guardarsi intorno. Come cantano gli ultimi Baustelle: «Il futuro cementifica / la vita possibile / Qui la vista era incredibile / Da oggi è probabile / che ciò che siamo stati non saremo più».

(6 febbraio)

È sempre bello che ci sia qualcuno, a tutta prima un po’ (tanto) folle, che va controcorrente. La tendenza è a favore del digitale, breve, frequente, semplice, gratuito, per tutti? Si va allora nella direzione opposta: cartaceo, lungo, rado, complesso, relativamente costoso, per pochi. Quanto durerà non si sa; intanto, buona avventura!

(6 febbraio)

Darío Jaramillo Agudelo, su «El Malpensante»:

Forse bisognerebbe cambiare tattica. Non dire nulla. Semplicemente far trovare dei libri ai bambini ovunque essi vadano, a scuola e a casa, sullo scuolabus e dal medico, nel parco e in camera da letto. Alla fine, circondati, cadranno in tentazione.

E fare lo stesso anche con gli adulti?

(7 febbraio)

  • spaccia la notte / un silenzio fragrante / stupefacente

(7 febbraio)

Brividi – difficile dire se più di paura o di sotterranea contentezza – per quello che davvero potrebbe essere un risveglio traumatico, la mattina del 26 febbraio, a risultati elettorali acquisiti. Molti dei “generali” potrebbero scoprire di avere, come sempre, combattuto con le strategie, le tattiche e le armi dell’ultima guerra e non di quella che avevano realmente di fronte, mentre i giornali – e non solo loro – di nuovo lì a chiedersi: “E noi dove eravamo, a cosa pensavamo nel frattempo?”. Brutta storia, mi sa, anche questo voto; brutta occasione persa di provare a ripartire e ricostruire su basi nuove; solo il culmine di un processo di demolizione.

(7 febbraio)

Ottimo, incisivo e illuminante, come al solito, Marco Belpoliti. Oggi parlando di «tirannia dell’intimità» e come «l’idolatria intimista impedisce di utilizzare la comprensione dei fenomeni di potere come guida dell’agire politico. Così il risentimento diventa il sentimento maggiormente coltivato dalla nuova politica dell’intimità».

(7 febbraio)

Presi solo dai palinsesti
i vecchi politici del Palazzo
non ci capiscono una beata mazza.
A chi lasciano libera la piazza?
A quel comico che sbraita come un pazzo.
Eh, si sa, sono proprio desti.

PS Fossero dei politici più sgamati, più svegli, più attenti all’aria che tira, forse si asterrebbero dalle tante comparsate in tv e alla radio, forse capirebbero che non basta occupare i palinsesti per fare colpo sugli elettori, ma che anzi alla lunga questo può essere controproducente, perché l’imbonimento mediatico ormai funziona poco, non riscalda più gli animi, è déjà vu. L’impressione è che gli elettori stiano tornando ad avere più fame di corpo, di fisicità, che di immagini e voci “mediate”. Più in generale, questo è un discorso che probabilmente può valere un po’ per tutti noi, nella vita di ogni giorno.

(8 febbraio)

Chissà, alla fine sarebbe riuscito anche lui a prendersi ben più che una vacanza da lì, dai blog, dai social network, dai siti di news, in generale dalla rete. Ci si arrivava sempre un po’ troppo in ritardo, dopo reiterati tentativi a vuoto e valanghe di parole semi-inutili, ma alla fine forse si rinsaviva. Forse.

(9 febbraio)

Andrea Monti in un editoriale della «Gazzetta dello Sport»:

Oggi più ancora di ieri la Gazzetta abbraccia e appoggia con forza la proposta della Wada per una commissione di verità e riconciliazione. Chi ha qualcosa da confessare, e oltre a Cipollini potrebbero essere quasi tutti, trovi il coraggio di farlo subito, accettando l’umiliazione ma risparmiandosi sanzioni postume. Cerchiamo verità, appunto, non vendetta.

Approvi – anche se potrebbe fare molto, molto male scoprire che, in pratica, nessuno di coloro per cui hai tifato in questi anni si salva dalla piaga del doping. Come direbbe Bartali (manco lui uno stinco di santo, mi sa, anche se all’epoca si ricorreva a rimedi molto più caserecci), «l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare». O per dirla con un detto popolare, «il più pulito c’ha la rogna». E non solo nel ciclismo, purtroppo. Il doping potrebbe di fatto assurgere a metafora simbolo della nostra storia più recente; perché, in questi ultimi anni, di che cosa si può dire che non sia stato almeno un po’ “drogato”, pompato, alterato, sopravvalutato o, all’opposto, per incuria o convenienza sottovalutato?

(9 febbraio)

L’eterna fascinazione per la neve, per un mondo che si ricopre di una patina di bianco e per qualche momento dà l’impressione di essere incantato, oltre che lindo. Solo per qualche momento, purtroppo, perché la realtà impiega sempre poco a reimporre il suo lato “sporco”.

(10 febbraio)

L’impressione ricorrente, rivoltandoti inquieto nel letto, di avere in tanti, troppi, buttato gli anni migliori della vita – e forse di tutta la storia – collezionisti spesso di piaceri mediocri e lamentazioni stucchevoli. Ciò sparato, puoi anche andare a buttarti in piscina, finché sei in tempo.

(10 febbraio)

«Credo che la maturità non porti nessuna esperienza» disse. «O dovrei dire che l’esperienza non porta nessuna maturità?»

Juan José Saer, Cicatrici, traduzione di Gina Maneri, La Nuova Frontiera, Roma 2012, p. 12.

(11 febbraio)

  • è un bel segno / anche il papa lo sa / che tutto cambia
  • cambia il papa / dall’oggi al domani / chissà chi sarà

(11 febbraio)

Possiamo e sappiamo lamentarci à gogo, se ci mettiamo a esaminare con estremo puntiglio tutto quello che non va nella nostra vita, nel nostro paese e in generale nel mondo. Epperò, se ci pensate, a quanti momenti storici, a quante piccole e grandi rivoluzioni abbiamo avuto la ventura di assistere nel giro di trenta, quarant’anni? Solo dall’89 in poi, è successo di tutto e di più. Non sempre in meglio o in modo indolore, è chiaro. Ma dire che siano stati anni scialbi e noiosi, privi completamente di fascino, sarebbe dire una bestemmia.

(11 febbraio)

Bello è bello, Fantasma, il nuovo disco dei Baustelle. Che tra tot anni «verrà visto e ricordato come uno dei lavori più belli, complessi e affascinanti della storia della musica italiana», lasciamo che sia il tempo a sancirlo. Per ora basta dire che si fa ascoltare e riascoltare dall’inizio alla fine senza mai stancare.

(12 febbraio)

«Strappo storico», senti dire alla radio a proposito delle dimissioni – pardon, dell’abdicazione – del papa. E pensi a quanto sia stato profetico Baricco nella recente lezione su «gli strappi che cambiano il gusto» e, in una certa misura, anche la storia. Ma, evidentemente, nemmeno tu sbagliavi troppo quando, sulla scorta di Baricco, ti dicevi «convinto che siamo in presenza o nelle immediate vicinanze di un nuovo “strappo”, di una nuova “rivoluzione del gusto”. Con un certo pendolo estetico/culturale/comportamentale/sociale arrivato alla sua posizione di massima elongazione, da un giorno all’altro potremmo scoprire che l’aria di colpo è cambiata, che quello che ancora ieri furoreggiava oggi non va più, è desueto, è superato. Stai a vedere che non avvenga proprio in questo 2013. Qualche segnale comincia a esserci, e non va sottovalutato». E dopo ieri, altro che segnali! Sarà di conseguenza un 2013 da vivere con le antenne ben dritte.

(12 febbraio)

«Tempo di cambiare, di rimettere in discussione, di rischiare di nuovo, di rivoluzionare, con voluttà. Basta con la trita routine, con le cose vecchie e assodate, viete, abusate. Deve partire una rinascita, una nuova primavera, come quella che presto ridonerà colore ai nostri volti e luce ai nostri occhi». Così tu il 31 gennaio 2008. Ma perché di quei propositi poi ne è stato ben poco, con esasperante lentezza e scarsa convinzione? E questa volta sarà diverso?

(13 febbraio)

Potessimo dire anche per l’Italia, come fa Robert Reich per gli Stati Uniti, che è impossibile non essere ottimisti. Diciamo comunque che sì, siamo ottimisti per il futuro – non foss’altro perché chi viene dopo di noi merita la fiducia che possa fare meglio di noi.

(13 febbraio)

Jonathan Franzen (via Booklover):

When you stay in your room and rage or sneer or shrug your shoulders, as I did for many years, the world and its problems are impossibly daunting. But when you go out and put yourself in real relation to real people, or even just real animals, there’s a very real danger that you might end up loving some of them. And who knows what might happen to you then?

(14 febbraio)

Beppe Severgnini, al via del suo viaggio politico e ferroviario da Trieste a Trapani, in seconda classe su treni regionali:

Se l’Italia del 2012 amava definirsi sobria (non lo era), questa del 2013 non osa dirsi spaventata: ma lo è. La gente risponde, incurante della telecamera, con una compostezza innaturale. Mentre ragazzi in costume transitano seri, e piccoli orientali spingono grandi valigie tra mucchi di neve, penso quanto starebbe bene, adesso, se dagli altoparlanti della stazione uscisse un verso di Franco Battiato: “Mister Tamburino non ho voglia di scherzare, rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare”.

Sarà davvero questo il mood del 2013? A viaggiare sui regionali, in ogni caso, credo che si entri in contatto con l’Italia più vera; è lì che si può ricavare un quadro d’insieme migliore.

(14 febbraio)

Addirittura «Prospect» si scomoda per Grillo, domandandosi: “Is Beppe Grillo the first social media politician—and is he even a politician?”

(15 febbraio)

Beppe Severgnini, in treno da Genova a Livorno:

Non c’è nulla di eroico nello scendere l’Italia in seconda classe e ascoltare; ma è salutare. Lo scompartimento induce alla conversazione e la costrizione del luogo – come hanno dimostrato, tra gli altri, Totò e Agatha Christie – rivela i caratteri.

(18 febbraio)

Beppe Severgnini, da Pescara a Benevento:

[I]l curioso destino del sud italiano: se le città non cambiano, i ragazzi non restano; se i ragazzi non restano, le città non cambiano. Uno strano “Catch 22” mediterraneo, dal quale dovremmo provare a uscire.

(18 febbraio)

A sei giorni dal voto… la verità, la verità? Nessunissima voglia di andare a votare. Mai come quest’anno un senso di totale disillusione e scoramento, come di totale disappartenenza. Brutta storia.

(18 febbraio)

In base al “modello intuizionista sociale”, parrebbe dunque confermato che vengono prima le intuizioni, mentre il ragionamento di solito interviene dopo avere già espresso un giudizio, per influenzare altre persone. Ma proseguendo la discussione, a volte (a livello di rete, in realtà, piuttosto di rado) le ragioni fornite dagli altri modificano le nostre intuizioni e i nostri giudizi. Ecco insomma spiegato perché le prime impressioni – a livello intuitivo, emozionale – sono fondamentali; perché l’“elefante” la può più del “portatore”; perché la prima spesso e volentieri è anche quella buona.

(20 febbraio)

Vista, senza volerlo, la seconda puntata di Volare. La grande storia di Domenico Modugno. Qualche lacrima, a stento trattenuta. E una lapidaria conclusione, in 5-7-5:

  • avevan niente / ma avevano cuore / ed energia
  • abbiamo tutto / ma è avere niente / senza poesia

(20 febbraio)

Bel pezzo di Marco Imarisio, da Piazza del Duomo a Milano, che permette di capirci qualcosa di più sulla crescente “onda” grillina, al cui centro c’è «la voglia di sentirsi al centro di qualcosa, e una delusione più dolente che rabbiosa verso la politica di ieri e oggi».

E dentro di me comincio ad avere paura. Paura di non riuscire a dominare razionalmente anche la mia «delusione più dolente che rabbiosa verso la politica di ieri e oggi». In concreto, paura di non riuscire a convincermi di andare a votare, tanta è la repulsione maturata nel corso di quest’ultima campagna elettorale.

(20 febbraio)

Giuseppe Sermonti, in un curioso articolo su «Il Tempo» del 1990, diceva che «ognuno di noi ha un’età anagrafica, ma sopra quella ha un’età epocale, che è l’età del mondo (dell’Europa)». Scrivendo nel secolo scorso, parlava di un mondo di cui «Il parto avvenne, cesareo, nella Santa Russia e di parto la madre morì. Il mondo neonato fu preso in cura da un’ostetrica italiana, all’inizio degli anni Venti. A venti anni è andato in guerra, a trenta era reduce e ora s’avvia a diventare vecchio, per spegnersi col millennio». Ora, prendendo per buona la tesi dello storico Hobsbawm di ritenere chiuso nel 1991 il “secolo breve” del Novecento, applicando il ragionamento di Sermonti si potrebbe dire che oggi, nel nuovo secolo, abbiamo tutti una “età epocale” suppergiù di vent’anni. Da qui, probabilmente, gli spiriti “bellicosi” che si riaccendono.

(21 febbraio)

Come quasi tutte le cose che scrive, ottimo post di Leonardo Tondelli, che prova a guardare separatamente Grillo, Movimento 5 Stelle e grillini, dicendosi un po’ preoccupato dal primo, avvilito dai terzi e incuriosito dai secondi.

(21 febbraio)

Dal freno disciplinare dei secoli passati al libero sfogo prestazionale attuale, imprenditori di noi stessi, sotto la spinta di un eccesso di positività, ritrovandoci invariabilmente malati. Rimedio?

[F]are un buon uso della stanchezza che tutto questo comporta […] sentire la stanchezza come una forma di cura, mantenendo attiva la consapevolezza che al fondo di un’attenzione contemplativa è insita una forma profonda di staticità. […] Una stanchezza che ci permette di abbandonarci e che risveglia in noi una particolare capacità di guardare.

Recensione – di Riccardo Panattoni – e libro da meditare.

(21 febbraio)

Come paragone può essere forte e anche di cattivo gusto, ma quello che timidamente era sembrato manifestarsi nell’ultimo anno non sarà stato il classico, breve, illusorio miglioramento prima della morte di un’Italia lungamente agonica? Ora, rivenuti meno quei pochi anticorpi di serietà e responsabilità che momentaneamente parevano essersi insediati al governo del paese, e ridato libero sfogo ai nostri istinti peggiori per l’irrinunciabile bisogno di combattere con ogni mezzo chi ci fa ombra, anziché provare con vero impegno a collaborare con gli altri per il bene comune, convinti di essere noi i migliori, noi soltanto la nostra salvezza, la nostra bussola morale e materiale, che ne sarà di noi? Ci sarà medicina capace di restituirci salute e vigore duraturi, togliendoci dal letto di malati cronici d’Europa e rialzandoci in piedi stabilmente? O, comunque ci si provi, a questo punto sarà solo accanimento terapeutico? E, nel caso, lasciato morire un organismo divenuto inguaribile, ci sarà una fenice capace di rinascere dalle sue ceneri? (PS Fissandoli, poco fa, questi pensieri ti sembravano “scandalosi”. Ma leggendo per esempio quello che pensano alla Reuters, mica tanto.)

(21 febbraio)

In visita dalla dottoressa di famiglia, la domanda: «Ma che ne pensi, come andranno queste elezioni?» Risposta secca: «Male!» «E perché?» «Perché hai voglia a chiudere la stalla quando i buoi sono scappati.» «Già, già.»

(22 febbraio)

Di una cosa ci si può cominciare a rallegrare, comunque: poco meno di nove ore e questa campagna elettorale sarà finita. FI-NI-TA! A-MEN!

(23 febbraio)

Sono solo sensazioni, ancora non avvalorate da prove irrefutabili. Ma posso dirlo lo stesso? Sì. La sensazione è che sia finita o sia comunque nella sua estrema fase terminale un’epoca. Sta cioè finendo un regime. Ma non un regime nel senso deteriore del termine. Forse anche questo, ma non solo questo. Quello che mi pare finito o agli sgoccioli estremi è un regime di vita, di consuetudini di vita. Quello che ci sta investendo con ritmi e manifestazioni sempre più irruenti e sensazionali è quindi un cambiamento di quelli seri, che per l’appunto potrebbe fare “epoca”. Segnerà cioè il passaggio da un’epoca all’altra della nostra vita, da un regime di vita a un altro. E non soltanto nella vita politica – quella in questi giorni maggiormente sotto i nostri riflettori, quella che a vario titolo ci prende o impensierisce di più – ma nella vita in generale, dal livello individuale a quello sociale. E come ogni cambiamento epocale, naturalmente non sarà istantaneo né tantomeno limpido e lineare e scevro da problemi. E meno che mai tutti lo vivranno negli stessi tempi e negli stessi modi. Ma tempo quattro o cinque anni – il periodo di assestamento in genere richiesto per passare da una fase all’altra della vita – probabilmente un po’ tutti ci diremo che sì, siamo entrati in una nuova epoca, in un nuovo regime di vita. Migliore per certi aspetti, per altri sicuramente peggiore. Ma come cantava Lindo Ferretti, «così vanno le cose / così devono andare».

(24 febbraio)

Veniamo a noi. La nottata, sarà anche che tra mezzanotte e l’una ti eri guardato su YouTube il documentario Girlfriend in a Coma in versione integrale, è stata di quelle insonni al massimo. Così, alzato verso le otto e mezza, ti sei detto: “Ma sì, togliamocelo di dosso ’sto peso e dopo non ci pensiamo più”. Sottinteso, il peso di andare a votare. Un andare a votare per disperazione, non per altro; cioè, di sicuro non per convinzione. Sotto già la divisa per andare poi a correre, sei così andato al seggio, persuadendo – sempre per la serie “dopo non ci pensiamo più” – anche tua madre. (Tuo padre, no, non ne ha voluto sapere, né tu ti sei sforzato di provare a convincerlo, ché lo capisci eccome che non avesse – e tuttora non abbia – la minima voglia di farlo: fino all’altro ieri anche tu eri suppergiù dello stesso “partito”.) Alla fine, quindi, votare hai votato. (Chi o come non importa; cioè, importa ma sono affari tuoi. Basta dire che dietro, comunque, una scelta precisa c’è stata: sofferta, ma c’è stata. Non banale, soprattutto: nei limiti del possibile, qualcuno l’hai premiato e qualcun altro l’hai punito.) Ma quando, subito dopo, sei tornato a correre a distanza di due mesi sulle strade tra la Marca e il Regno, dentro di te urlavi a più non posso: MAI PIÙ CON QUESTA LEGGE ELETTORALE NAZIONALE! E ogni volta che lo pensavi, sentivi al ginocchio destro una fitta di dolore. Perché si sa, per correre bene la testa deve essere sgombra di pensieri. E, infatti, quando finalmente hai smesso di pensare a queste cacchio di elezioni e a tutto il fiele che ti hanno rimosso dentro, il dolore è scomparso quasi all’istante. Allora ti sei detto: “Mo’ sì che il grumo di malumore si è sciolto! Mo’ sì che, quali che saranno i risultati del voto, la primavera è nell’aria!”

(25 febbraio)

Pronostico a meno di un’ora dalla chiusura delle urne: in arrivo uno scappellotto micidiale a tutti i partiti tradizionali, con risultati molto al di sotto delle loro migliori aspettative. Pd compreso, punito, per dirla con Aldo Busi, nel suo «tatticismo esasperato ed esasperante». Gli unici a gongolare saranno quasi sicuramente Grillo e i suoi, ma dovranno tenere ben presente che da oggi pomeriggio anche la loro festa sarà finita, non potendo più contare sugli errori e le deficienze altrui. Quindi, tempi grami un po’ per tutti nel breve e medio termine, come – e forse più – che fino ad adesso. Sul più lungo termine, buio totale.

(26 febbraio)

Notte insonne, di nuovo, puntualmente, come sempre, quando non gira, che sia in me o fuori di me. Accesa la radio, la prima canzone è E di nuovo cambio casa di Ivano Fossati. Emblematica, naturalmente. E quanto basta per sopire – ma quanto a lungo? – pensieri e parole letali.

(26 febbraio)

Ma che abbiamo fatto di male per ritrovarci in questa situazione quasi da incubo? La butto lì: banalmente, abbiamo “lasciato fare” troppo; ce ne siamo “fregati” lungamente e allegramente di un’infinità di cose. E quando alla fine ci siamo risvegliati – e nemmeno del tutto né tutti né sempre con la luna giusta – il treno ci stava già piombando addosso.

(26 febbraio)

Niente, solo una voglia di mare spumeggiante d’agosto. (O si rivoterà poco prima o poco dopo e quest’anno anche il sole e il mare o la montagna ci andranno di traverso?)

(27 febbraio)

Adesso, Galli della Loggia, leggendoti questa analisi di Mannheimer, vai a ridire (era solo il 16 ottobre scorso) che nel nostro Paese, preso «nella gabbia della politica dei partiti, ogni giorno succede di tutto ma da anni non cambia nulla. Mai nulla di sostanziale». Il mio commento allora fu che in superficie forse è stato e in parte continua a essere così. Sottotraccia le cose cambiano però in continuazione; e alla fine arriva il momento in cui il cambiamento diventa visibile anche in superficie, con effetti spesso detonanti, incontrollabili. Come scriveva Frank Conroy in Stop-Time:

Le cose cambiano, è quello che voi non volete capire. Alla mia età diventa chiarissimo. Le cose cambiano, cambiano di continuo, e anche quelle che sembrano più sicure in realtà stanno cambiando molto lentamente, a volte così lentamente da non accorgerci di ciò che sta succedendo proprio sotto i nostri occhi. Si deve stare sempre all’erta. Non credere mai alle cose come appaiono. I netturbini credono che tutto sia semplice ed è per questo che sono netturbini. Bisogna guardare dietro le maschere, andare oltre le menzogne. Perlopiù sono menzogne, si sa.

Quando un po’ più a freddo e con maggiore distanza si andranno a ristudiare gli ultimi mesi o anni, ci si accorgerà di nuovo della grande cecità che c’è stata, non ultimo della grande stampa e in particolar modo delle grandi firme, quelle che pretendono di influire, di “dettare” la linea, ma a conti fatti non incidono niente a livello popolare, non contano una beata mazza. Se perciò di fallimento si deve parlare (e se ne dovrà parlare, perché ora come mai è evidente, da tantissime parti, nessuno escluso), quello delle élite intellettuali del Paese è lampante, fragoroso.

(27 febbraio)

E no, altro che buttarla in ironia e dire, come oggi fa Massimo Gramellini, che «Va bene, va tutto bene». Va bene un corno, invece! E probabilmente anche con l’ironia è l’ora di piantarla. In mancanza di un altro posto dove andare, negli ultimi anni ci siamo troppo spessi rifugiati proprio nell’ironia (facile o meno non importa) ed ecco alla fine dove ci ritroviamo. Propongo dunque di abrogarla per un po’ ’sta cazzo di ironia, o quantomeno di usarla con estrema moderazione, ché può darci la sensazione di sentirci superiori ma non porta a niente: a niente di buono, cioè. Perciò, mi dispiace, ma abbasso l’ironia d’ora in poi.

(27 febbraio)

Ovunque ti giri, un sacco di gente (vedi oggi Michele Serra) che adesso cerca di rivedere le proprie posizioni precedenti. Meglio tardi che mai, d’accordo. Ma ci si chiede anche: bisognava proprio aspettare questa sberla, questo vero “sveglia marmotta”, per aprire gli occhi su una realtà mutata e che richiedeva e richiede risposte nuove, dinamiche, alternative, più al passo con i tempi?

(27 febbraio)

La sensazione che non sia più il tempo di critiche a mezza voce, soffuse, velate. Se di deve criticare qualcosa o qualcuno, meglio farlo (metaforicamente parlando, eh) con il fucile caricato a pallettoni. Luca Sofri ne dà una prova.

(27 febbraio)

Come scriveva anni fa Tommaso Pellizzari, «bisogna starci attenti alle canzonette. Soprattutto a quelle scritte da un raffinato cantante come Franco Battiato». Io aggiungerei, nelle generazioni più recenti, anche quelle di un certo Federico Zampaglione, alias i Tiromancino. Per esempio, ascoltare e leggere il testo del brano I giorni migliori, datato 2002.

Certe cose che senti nell’aria
non le devi nascondere
le conosci a memoria
ma non puoi condividerle,
se stai cercando il tuo viaggio
in un posto lontano, più libero…

Oltre i muri che vedi andando avanti
fra i discorsi invidiosi e arroganti,
le cose che senti nel cuore
non rinnegarle mai
sono fragili ma possiamo difenderle
se voleranno in alto i nostri pensieri
più limpidi.

Aiutami a ritrovare l’interesse
per le piccole cose
che sono alla base di tutte le promesse
del futuro che cresce,
perché sono le sfumature
a dare vita ai colori
e a farci tornare in mente
le cose più pure
dei giorni migliori.

Non ci sono percorsi più brevi da cercare
c’è la strada in cui credi
e il coraggio di andare.

(28 febbraio)

  • sotto il cielo / come disse qualcuno / gran confusione
  • son giorni pazzi / ed è solo febbraio / pensa tu marzo

E la fortuna è che siamo o dovremmo essere – almeno i credenti cristiani* – sotto Quaresima, quindi in uno spirito semi-penitenziale. Fosse ancora Carnevale, che starebbe succedendo? Un vero finimondo? Confidiamo allora in aprile, quando non solo sarà già stata Pasqua, ma un dolce dormire potrebbe anche lenire gli animi, riconducendogli a maggior buon senso. Per tutto marzo, però, meglio attrezzarsi con buone dosi di ansiolitico.

* O anche quello che sta succedendo è indice non trascurabile che in giro di fede – e soprattutto morigeratezza – cristiana ne è rimasta ben poca?

(28 febbraio)

L’editoriale più bello letto in questi giorni? Quello di Dario Mangano, su «Doppiozero», che invita a

[…] riflettere sui modelli di pensiero che ci hanno portato a questo. Fare un passo indietro e pensare al modo di pensare. È qualcosa che nessuno fa più, piccoli effetti collaterali connessi alla cancellazione del ruolo della cosiddetta cultura, ma che oggi è indispensabile. D’altronde, Grillo, l’unico vero vincitore di questa partita, ce lo dice da tempo: il punto non è il programma, quello che voglio fare o chi penso debba farlo, ma il modello presupposto dall’atto stesso di far politica. La campagna del comico non si basa sulle idee ma sulle meta-idee, le idee che danno forma alle idee. Propone un modello di pensiero nuovo e vince. […] Tornando al videogioco della politica, per capirci davvero qualcosa dobbiamo prima riflettere sul significato che diamo a un insieme molto ampio di cose. La vita è un progetto di senso, ed è da qui che dobbiamo ripartire, dal modo in cui esso si costruisce. È questo, forse, il filo rosso che bisogna seguire e che può ricucire tutti questi pezzi impazziti, almeno nella nostra testa.

(1 marzo)

Oggi, per capire dove stiamo andando […] non bisogna guardare alla politica, bensì all’arte. È sempre stata l’arte a indicare con grande anticipo e chiarezza la direzione che via via stava prendendo il mondo e le grandi trasformazioni che si preparavano. Serve di più entrare in un museo che parlare con cento politici di professione. Oggi la storia, come l’arte insegna, si sta postmodernizzando. Se applichiamo ad essa le categorie interpretative che abbiamo elaborato per l’arte riusciremo forse a districarci meglio e ad avere strumenti d’analisi meno obsoleti di quelli che in generale ci si ostina a usare. Cadute le grandi ideologie unificanti e a modo loro totalitarie e tramontato ogni sistema di valori e di riferimento capace di applicazione universale, resta infatti la diversità, la convivenza degli opposti, la contiguità degli incompatibili. Ne possono derivare una conflittualità aperta e sanguinosa, arcaica, lo scontro diffuso, la rinascita dei localismi e dei più efferati tribalismi, ma potrebbe venirne anche un lento apprendistato all’accettazione del diverso da sé, alla rinuncia ad un centro, ad una rappresentanza unica. Come l’arte postmoderna insegna, forse ci si potrebbe accorgere che c’è spazio per tutti e che nessuno ha più diritto di cittadinanza di altri.

Ryszard  Kapuściński, Il cinico non è adatto a questo mestiere. Conversazioni sul buon giornalismo, a cura di Maria Nadotti, edizioni e/o, Roma 2000, pp. 16-17.

Al di là del fatto che sia passato un decennio buono e ora più che di postmodernismo si dovrebbe magari parlare di post-postmodernismo, ma queste parole di Kapuściński non sarebbero da incorniciare? Come che sia, urge più di una visita a qualche museo o galleria di arte contemporanea: se ne gioverebbe, a quanto pare, la nostra capacità interpretativa della caotica realtà che abbiamo di fronte. O no?

Sempre in questo libro e sempre nell’introduzione di Maria Nadotti, Kapuściński e alcuni consigli per gli adulti (utili, magari, anche in politica):

Ascoltare i giovani e prestare loro attenzione, rinunciare a ogni posizione di potere, ammettere di trovarsi già dalla parte dei perdenti. Se ci troviamo di fronte a una nuova coscienza e a nuovi atteggiamenti che negano valore e autorità all’esperienza dei più anziani, bisogna che capiamo che ciò ha un senso e delle ragioni. E che queste ragioni vinceranno comunque. Bisogna che capiamo che i più giovani ci ascolteranno solo a condizione che noi ascoltiamo loro e che siano loro a invitarci a parlare. La chiave di tutto è l’interesse reciproco. Se non ci si rende conto di questo, i giovani continueranno a vincere, perché il futuro è loro e i più vecchi rimarranno prigionieri della propria cecità. Viviamo in un mondo in costante e rapidissima trasformazione e non si può continuare a pensare e sentire come se niente fosse mutato. I cambiamenti vanno riconosciuti e accettati, se si vuole a propria volta essere accettati. E per essere accettati, bisogna accettare gli altri, in particolare gli altri che rappresentano le nuove tendenze. Parlo, naturalmente, del meglio delle nuove generazioni, perché come sempre le nuove generazioni sono fatte di persone diverse. Ma il meglio, oggi, è meraviglioso: i giovani sono molto più intelligenti, informati, capaci di esprimersi, intellettualmente rapidi e maturi di chiunque li abbia preceduti. Lo dico senza ideologia, è una pura e semplice constatazione. Del resto, prendiamo ad esempio il mio paese [la Polonia]: una volta non c’era modo né tempo di sviluppare se stessi, non c’era la televisione, non si era liberi di viaggiare, non si avevano contatti col resto del mondo, non si sapeva che esistessero altre culture, non sia avevano informazioni. Ora i migliori tra i giovani sanno molte più cose di noi, perciò io preferisco essere umile e modesto, piuttosto che dire sono più vecchio, dunque ne so più di te.

(1 marzo)

Un libro che probabilmente varrebbe la pena di leggere e far leggere (e magari anche tradurre), è The Difference, di Scott Page. Questo, anche in relazione al fatto se siano meglio dei politici di professione, dei tecnici, magari le menti migliori in circolazione, oppure un gruppo eterogeneo di cittadini preparati e impegnati in politica.

Almeno in rete, per Page «la diversità batte l’abilità. La spiegazione è piuttosto semplice:

I migliori problem solvers tendono ad assomigliarsi; perciò, un gruppo di loro si comporta poco meglio di ciascun risolutore preso singolarmente. Un gruppo di risolutori presi a caso, ma intelligenti, tende a essere variegato; e questa diversità consente loro di essere nel complesso migliori.

Devono però essere rispettate quattro condizioni (cito dalla sintesi che ne fa David Weinberger in La stanza intelligente:

Primo, il problema deve essere così difficile che nessun singolo risolutore fornisca mai la risposta giusta; altrimenti basterebbe quell’unico risolutore brillante. Secondo, i membri del gruppo devono essere preparati sul problema; se è un problema di analisi matematica, una squadra eterogenea di persone che non conoscono l’analisi non farà meglio di un singolo esperto del settore. Terzo, i componenti del gruppo devono avere la capacità di fornire miglioramenti incrementali alle soluzioni proposte. Quarto, il gruppo deve essere sufficientemente grande, e attingere a un bacino ampio e variegato. Rispettate queste quattro condizioni, è meglio avere un gruppo eterogeneo che uno composto solo dalle menti migliori in assoluto: la diversità batte le teste d’uovo.

Alla luce di ciò, possiamo aspettarci che il prossimo parlamento, con un numero cospicuo di new entries sicuramente eterogenee come preparazione e competenze faccia meglio dei precedenti, più omogenei? Vedremo, vedremo. Anche questo, in fondo, potrebbe essere un banco di prova per la tesi di Scott Page.

(4 marzo)

Parla del tempo oggi Michele Serra; dei «colpi del tempo, soprattutto del tempo perduto senza scegliere, senza decidere, senza cambiare». Pietro Greco potrebbe ribattere (da Einstein e il ciabattino. Dizionario asimmetrico dei concetti scientifici di interesse filosofico) che

Il tempo presenta, da sempre, diverse facce. Talvolta nette e precise. Talaltra sfumate e soffuse. Facce diverse, eppure tanto interpenetrate che ventisette secoli di indagine filosofica e quattro di indagine scientifica non sono riusciti a risolverle. E così c’è il tempo, creativo, della biologia. E c’è quello, imperativo, della teologia. C’è il tempo statico e quello dinamico. C’è il tempo profondo e l’attimo fuggente. C’è un tempo tragico: la grande “mano crudele” che porta degrado, distruzione, morte e dissoluzione, come lamentava il poeta inglese John Donne. E c’è un tempo epico: quello della grande “mano ordinatrice” che porta armonia, creazione, vita e storia. E ancora: c’è un tempo scolpito nella materia e c’è un tempo carpito dalla coscienza. C’è un tempo reale e un tempo immaginario. Un tempo soggettivo e (forse) il tempo universale. C’è il tempo e, infine, c’è l’eternità.
Cos’è dunque il tempo?
“Se non me lo chiedi, lo so. Ma se me lo chiedi – dobbiamo ammettere con Agostino – allora non lo so più.”

La domanda, allora, è: quale faccia del tempo prevarrà in questa occasione? Soprattutto, sarà un tempo tragico o epico? O avremo di nuovo un tempo farsa, la causa profonda della situazione critica di oggi?

Per un altro verso, al paragone odierno di Michele Serra tra l’ansia e lo smarrimento che si vivevano all’epoca del terrorismo e del sequestro Moro e quelli di oggi si potrebbe rispondere con il confronto che qualche anno fa, in 78.08, faceva Tommaso Labranca tra il 1978 e il 2008:

È la molteplicità delle cose che vogliamo comunicare che ci rende aggressivi nello .08. E per comunicarlo facciamo come i computer: usiamo le icone. Ognuno di noi, qui dentro, fuori per strada, a casa mia, in un’altra città del Paese sta cercando di comunicare riempiendo il desktop dell’interfaccia sociale con una moltitudine di icone. […] Magari mi sbaglio, anzi sicuramente mi sbaglio, ma il .78 mi appare adesso come un nido lontano, caldo e protetto, in cui vorrei rifugiarmi con poche cose, un panino al prosciutto e una manciata di canzoni. Mentre lo .08 è uno show affollato e continuo in cui devo esibirmi mostrando le icone, obbligato a conoscerle, a usarle, ad accettarle o a rifiutarle.

Chissà a quanti altri il ’78, messo a confronto con l’oggi, appaia davvero «un nido lontano, caldo e protetto, in cui vorrei rifugiarmi con poche cose, un panino al prosciutto e una manciata di canzoni»? Una cosa è però abbastanza certa: la letteratura e in generale l’arte sono in grado di anticipare i climi emotivi molto più del giornalismo e più ancora di politica, economia ecc.

(4 marzo)

«Quel gran pezzo dell’Emilia», o per meglio dire dell’Italia, che davvero ci manca. In che cosa Edmondo Berselli non c’aveva preso?

(4 marzo)

Aldo Bonomi, su «Il Sole 24 Ore»:

Una dinamica che ha scisso le scelte elettorali di due composizioni sociali, quella urbana del terziario e delle professioni e quella del contado, delle piccole imprese, del capitalismo molecolare ormai alle corde. Sono apparsi due “popoli”: l’uno rappresentazione della crisi dei ceti medi dell’impresa diffusa, l’altro di una classe creativa né riconosciuta né raccontata se non nelle community della rete. Popoli che non hanno trovato, fino ad ora, capacità di rappresentazione comune nella politica tradizionale. Mi pare questa la cifra di fondo della caduta delle culture politiche protagoniste del passaggio di secolo, il progressismo postcomunista e il forza-leghismo.

(4 marzo)

Magari un giorno verrà fuori che avere dato la stura ai commenti in rete fu la goccia che fece traboccare il vaso: se non ci fosse stata la possibilità di commentare su blog, pagine di giornali e social network, forse internet non sarebbe stata così “rivoluzionaria” anche sul piano politico.

(4 marzo)

  • stare un po’ qua / cercando di capire / quel che (non) basta

(5 marzo)

Qui sì che c’è da piangere. L’anno scorso la Concordia, inclinata sopra uno scoglio al Giglio (e ancora lì!); quest’anno la Città della Scienza, in fumo nell’ex area Italsider di Bagnoli. Solo coincidenze, naturalmente, ma con un impatto simbolico fortissimo e pesantissimo. Sapremo mai raddrizzarci e rimetterci in marcia con assennatezza e decisione? Sapremo rinascere comme il faut dalle macerie e dalle ceneri di un’incuria, un’incoscienza e, di fatto, un fallimento pressoché generalizzati?

(6 marzo)

Una tesi (indimostrabile) di George Packer, sul «New Yorker»:

obsessive upgrading and chronic stagnation are intimately related, in the same way that erotic fantasies are related to sexual repression. The fetish that surrounds Google Glass or the Dow average grows ever more hysterical as the economic status of the majority of Americans remains flat. When things don’t work in the realm of stuff, people turn to the realm of bits. If the physical world becomes intransigent, you can take refuge in the virtual world, where you can solve problems […] that most of your countrymen didn’t know existed.

Forse si applica al caso italiano: se la realtà pratica è disdicevole, ci rifugiamo nelle soluzioni digitali, dove apparentemente è tutto più facile.

(7 marzo)

Il mondo sta cambiando, ma non cambia come una volta, in cui alla fine sempre mondo restava. Adesso il mondo cambia andando via, disfacendosi e disfacendoci.

Dice bene Franco Arminio su Facebook. Ma periodicamente ci sono sempre stati salti e discontinuità radicali, bruschi, violenti, poco o niente governabili. Viverli in prima persona, sulla propria pelle, può essere molto spiacevole, ma succedono.

Come sostiene Brian Arthur, primo direttore del programma di ricerca interdisciplinare del Santa Fe Institute, citato da Morris Mitchell Waldrop in Complessità (traduzione di Libero Sosio, Instar Libri, Torino 2002), potrebbe essere utile adottare il punto di vista del

Taoismo totale, dove non c’è un ordine intrinseco. «Il mondo ebbe inizio dall’uno, e l’uno divenne due, e i due divennero molti, e i molti condussero alle miriadi di cose esistenti.» Nel Taoismo l’universo è percepito come vasto, amorfo e sempre mutevole. Non si riesce mai a fissarlo una volta per tutte. Gli elementi sono sempre gli stessi, e ciononostante si riorganizzano di continuo. È simile a un caleidoscopio: il mondo è formato da configurazioni variabili, ripetitive anche se mai del tutto, sempre nuove e diverse. Che rapporti abbiamo noi con un mondo così? Siamo composti dagli stessi elementi e facciamo dunque parte di questa cosa che non cambia mai e tuttavia è sempre mutevole. Se pensiamo di essere un battello a vapore e di poter risalire il corso del fiume, ci inganniamo. Siamo piuttosto come il capitano di una barchetta di carta che discende la corrente. Se cerchiamo di resistere, non arriveremo in nessun posto. D’altronde, se osserviamo tranquillamente il flusso dell’acqua, con la sensazione di farne parte, sapendo che varia di continuo e conduce sempre a nuove complessità, ogni tanto possiamo affondare un remo nell’acqua e spingerci da un vortice all’altro.

(7 marzo)

  • siamo perplessi / succedon cose strane / siamo complessi

(8 marzo)

Ottimo editoriale di Galli della Loggia, a descrivere lo scontento e spesso la disperazione (tale da spingerla a preferire all’immobilismo i salti nel buio) di

quella parte del Paese, e con lei una fascia generazionale d’Italiani, [che] di volta in volta ha guardato con simpatia al Partito radicale, ha sperato in Craxi, si è schierata con le iniziative referendarie di Mario Segni, ha cercato di capire le ragioni della Lega, ha puntato inizialmente su Berlusconi. Così come adesso fa un’apertura di credito a Grillo. Ma vogliamo dirlo? Non identificandosi mai, realmente, con le scelte di volta in volta compiute. Vedendone benissimo limiti e contraddizioni, ma sperando sempre, se si vuole illudendosi di servirsene strumentalmente: come una sorta di grimaldello. Ingenuità? Certo, ingenuità. È facile dirlo (dirlo ieri e dirlo oggi), ma l’alternativa quale era? Una sola, evidentemente: stare dall’altra parte. Dalla parte, cioè, che fino ad oggi ha resistito o si è opposta ogni volta al cambiamento, o vi si è adattata solo perché non poteva altrimenti.

(9 marzo)

Attardarti a letto il sabato mattino, e pregare. Pregare che non si torni subito a votare. Perché mica lo sai se la reggeresti un’altra campagna elettorale a così breve distanza dall’ultima, pessima. E perché hai paura. Paura che nel Pd bersaniano ancora non si sia colta la vera natura e la portata storica della tranvata che gli è arrivata addosso il 24-25 febbraio. (E pensare a quanto la sberla sarebbe potuta essere ancora più micidiale – un vero colpo da kappaò – se la legislatura fosse arrivata a scadenza naturale, con altri due mesi a disposizione di Grillo e Berlusconi rispettivamente per sottrarre e recuperare consensi). In tanti elettori piddini continui a cogliere un senso allo stesso tempo di vanagloriosa superiorità e di perniciosa sufficienza che ti preoccupa non poco. E da come si stanno muovendo Bersani e i suoi nel dopo voto, non riesci ancora a capire se adesso l’obiettivo sia 1) mettere su un governo pastrocchio che in qualche modo (e già questo “in qualche modo” potrebbe dirla lunga sul perché di tante sconfitte, dagli anni Novanta in poi; anni che, citando il mai troppo compianto Edmondo Berselli, sono stati «il regno della formula “in qualche modo”, che allude a oscuri e non ben descrivibili, ma comunque intuibili e rilevanti, attriti e trascinamenti fra i più famosi processi di cambiamento») tiri avanti per un paio di anni, provando a fare senza troppa convinzione qualche striminzita riforma, o 2) andare quanto prima ad elezioni, per tentare, sotto il ricatto del bisogno di stabilità, e complice un accerchiamento mediatico su Grillo, una rivincita immediata, ma di fatto senza cambiare squadra e soprattutto linea o anche solo linguaggio. Fossero queste le intenzioni, in entrambi i casi si tratterebbe di volontà suicida, non solo per ogni velleità politica futura dell’attuale dirigenza – tanto i vecchi quanto i più giovani – ma per quelle dell’intero Pd, destinato a sfracellarsi se il timone non passerà di mano (questo sì auspichi che avvenga presto), in buone mani. Pensi a queste cose il sabato mattina, attardandoti a letto per evitare di rintronarti subito la testa al computer, e preghi. Preghi perché pozza i bbe’, ma non ci credi troppo. (No, non ci credi troppo, a maggior ragione dopo aver letto questo.)

(9 marzo)

«Nel lungo periodo saremo tutti morti» diceva Keynes. E nel breve? Qualcuno, dandogli del «principe dei cialtroni», dice «tutti poveri». Io, per il momento, direi abbastanza nella cacca.

(10 marzo)

  • poi fu il tempo / temuto e atteso / poi fuggì via?

(10 marzo)

  • star in pigiama / è buona domenica / non vergognarti

E non vergognarti se passi il pomeriggio sul divano a guardare la tv. Precisiamo: a guardare Rai Storia, dove oggi ripassava uno speciale su Francesco De Gregori. Molto bello, ma allo stesso tempo allucinante. Allucinante, cioè, apprendere solo adesso del “processo” al Palalido di Milano nella primavera 1976. Allucinante, soprattutto, quel clima lì.

(10 marzo)

Dovessimo scoprire che psicologicamente non ci costa troppo ridimensionare il nostro stile di vita, riducendo i nostri spostamenti, le nostre attività, i nostri ritmi, i nostri consumi ecc., e che anzi così ci sentiamo un po’ più rappacificati con noi stessi e con il mondo intorno a noi, che cosa succederebbe? Un tracollo economico o che altro?

(10 marzo)

Si dice che la notte porti consiglio. L’auspicio è che ne porti anche la “notte” che, sebbene non ancora così buia e tempestosa (e la speranza è che non lo diventi mai), di fatto sta vivendo l’Italia in questo travagliato periodo post-elettorale. So, good night, and good luck!

(11 marzo)

  • rima in mento / è il refrain del momento / vero tormento

Colgonsi segnali vieppiù evidenti di incarognimento diffuso e rapido avvicinamento di rese dei conti finali. Il marzo del nostro sgomento e abbrutimento, prima di un aprile del nostro risorgimento?

(11 marzo)

  • fuori eppure / il mandorlo in fiore / riempie il cuore

(12 marzo)

Forse sì, dovremmo anche imparare a prendere commiato: un’uscita di scena dignitosa può aprire molte porte, anche più di un ingresso e un incedere fragorosi.

È importante saper entrare, saper trovarsi nel posto giusto al momento giusto nel modo giusto. Ma lo è anche, se non di più, capire quando sia il momento di lasciare, di mettersi dietro un capitolo della propria vita e avviarne uno nuovo. Invece, pochi di noi sanno farlo. Farlo bene, cioè.

In linea di massima tutti cogliamo in anticipo i segnali di qualcosa che sta finendo (un rapporto, una passione ecc.); dentro di noi lo sappiamo da tempo quando una situazione è ormai logora e le condizioni per proseguire al meglio non ci sono più. Al dunque, tuttavia, tentenniamo quasi sempre più del dovuto prima di pronunciare le parole fatidiche “fine” e “addio”, prima di chiudere definitivamente una porta e provare con decisione ad aprirne una nuova.

Secondo me non è per mancanza di lucidità.

Ripeto, lo cogliamo subito quando qualcosa non va. Magari non vogliamo ammetterlo, perché spesso equivale ad ammettere un altro sbaglio, un’altra sconfitta. Ma saperlo lo sappiamo, consciamente o inconsciamente, che non andrà ancora per le lunghe prima di una rottura.

È più una questione di carattere; è la paura di ferire, di essere giudicati male, di non farcela a superare il trauma dell’addio.

È perciò importante saper gestire questi momenti. Ma più importante ancora, secondo me, è non fare (troppe volte) marcia indietro, presa la decisione di voltare pagina: si perdono solo tempo ed energie, ed entrambi sono preziosi.

(15 marzo)

Basta sentirli, basta vederli e, a prescindere dalla loro età, deputati e senatori con due o tre legislature alle spalle appaiono irrimediabilmente vecchi, già nelle pose, già nel linguaggio, già nelle formule e nei rituali triti e senza fascino che ripetono. In Italia la politica imbruttisce, c’è poco da fare: tra un maneggio, un tiremmolla, una comparsata in tv e spesso uno scaldare solo la poltrona, l’appeal fisico – non parliamo per niente di quello intellettuale – di certo non ne guadagna.

(15 marzo)

L’irrealtà in cui vivono i politici e i commentatori politici italiani più blasonati. Quante chiacchiere, quante ipotesi, quanto nulla.

(18 marzo)
Sperimentare e innovare, anche tornando all’antico, oppure perire. E non solo in politica.

(21 marzo)

Lo capisci, no? Viviamo di ricordi. E non va bene. Perché quando cominciamo a vivere quasi soltanto di ricordi è il segno che abbiamo ormai abdicato al presente, abdicato al futuro. Abbiamo perso ogni volontà attuativa e ogni capacità immaginativa. Viviamo suppergiù di rendita. Ma nessuna rendita dura in eterno.

(21 marzo)

E «troppo tardi, sempre troppo tardi» arriviamo a capire: è una costante per noi italiani.

(21 marzo)

Ma a dispetto di tutto e di tutti è primavera, con un gran verdeggiare e rifiorire.

(25 marzo)

Di ogni epoca, gli inizi esaltanti; poi le fasi centrali, altalenanti; infine il declino, solitamente e stolidamente balordo.

(26 marzo)

Ascanio Celestini, su «Il fatto quotidiano»:

La vita è responsabilità. E invece stiamo facendo appassire la nostra vita, il nostro futuro nell’eterna assoluzione di noi stessi. La colpa è sempre degli altri […]. E invece è sempre mia la responsabilità.

(26 marzo)

E un risorgente desiderio di dire:

(27 marzo)

Forse non il meglio in assoluto, ma una cosa almeno dilettevole e utile che possiamo fare di questi tempi sconclusionati è provare a riscoprire la poesia. Fuori e intorno a noi. Ma anche dentro di noi, perché no? Giocare con le rime, anche banali. Ripartire per così dire dai fondamentali.

Siamo in piena fase di risentimento,
ci si arriva anche senza ragionamento.
Perché nasca un nuovo e intenso sentimento
non basta qualche superficiale cambiamento.
Necessario un più generale ravvedimento,
ma è come credere a un nuovo firmamento.

*

Dare segno di rinsavimento poco costa,
basta non sia una trappola a bella posta.
Ma nessuno oggi si ferma a mezza costa
senza prima rimbrottare una faccia tosta.
Non è più tempo di concedere nullaosta,
a ogni passo falso si rischia la batosta.

*

Torna in scena il Parlamento,
ma non è certo un bel momento.
Tutti contro tutti, par di capire,
è l’ora strategica di infierire.

*

E ti chiedi quando terminerà,
se e come ci si arriverà
in fondo a questa lunga galleria,
non l’anticamera di una prateria.

*

Gli uni a parlare di un bisogno di responsabilità,
gli altri a rinfacciare una mancanza di credibilità.
Ma nell’aria un’esortazione echeggia già:
Andatevene tutti quanti un po’ a caga’.

*

Non passa giorno,
guardandoti intorno,
leggendo questo sentendo quello,
senza pensare che sia un bordello.
Attento, però, cerca di parlar più fino,
ché potrebbe scoppiare un gran casino:
finisce che ti ritrovi in mezzo a un guaio
solo a dire che è un immenso pollaio.

*

Aio, aio,
siamo finiti in mezzo a un guaio:
dicono sia un grande puttanaio.
Avrei preferito un vero letamaio,
concime con cui riempire il granaio.
Ma è cercare l’ago in un pagliaio
uscire da questo verminaio.

*

Può darsi che dia diletto
giocare a verseggiare,
ma così è cazzeggiare.
Meglio andare a letto.

(28 marzo)

Un raggio di luce in mezzo al buio crescente. «Sono le nostre radici, il nostro senso di comunanza, il nostro buon produrre, la nostra identità, la nostra vita buona», l’antidoto migliore ai nostri tanti – e spesso stolti – problemi. Parola di Philippe Daverio.

(29 marzo)

Cheryl Strayed: «I nostri successi sono costruiti sui nostri fallimenti.»

(30 marzo)

Sono tempi feroci, come dice Ilvo Diamanti. Soprattutto nel lessico.

Ora, limitare la ferocia delle parole si può e probabilmente si deve. Il pensiero, tuttavia, se vuole davvero incidere deve essere feroce. Meglio, il pensiero è per sua natura feroce.

Come ben sintetizza il “feroce” Cioran:

Non si può riflettere ed essere modesti. Appena la mente si mette in moto, si sostituisce a Dio e a qualsiasi cosa. È indiscrezione, usurpazione, profanazione. Non “lavora”, sconquassa. La tensione che tradiscono i suoi procedimenti ne rivela il carattere brutale, implacabile. Senza una buona dose di ferocia non si può condurre un pensiero fino in fondo.

Dateci perciò pensieri feroci, spietati, che non facciano sconti, che lascino il segno, che facciano meditare, e non all’acqua di rosa. Il lessico, ok, quello un po’ va addolcito. Ma che non diventi un rosolio: nessuno lo digerisce a lungo. Come nessuno digerisce a lungo parole di fiele.

(31 marzo)

Qual è la previsione che, statisticamente, si avvera con più facilità? Quella che dice che oggi andrà come ieri. Quindi: fino a ieri hai commesso un mucchio errori? Puoi stare abbastanza certo che, salvo sorprese inattese o miracoli insperati, continuerai a farne anche oggi. Questo è un modo per dire che senza un coraggioso e intelligente ribaltamento degli schemi, senza una rottura/innovazione radicale nel modo di pensare e di fare, difficilmente si esce dalle situazioni critiche in cui spesso finiamo, vittime di una inesorabile coazione a ripetere. Nella vita, così come – l’esempio più lampante sotto i nostri occhi di questi tempi – in politica.

(2 aprile)

Bersani in conferenza stampa e la sbandierata e reiterata «ricerca onesta» di «un equilibrio di corresponsabilità larga, […] aderendo o acconsentendo». E, beato lui, si dice anche «non pessimista». Stringendo stringendo, però, e per usare un suo modo di dire: «Ma di che cosa stiamo discutendo?».

(2 aprile)

La fine veramente geniale
di un ventennio escremenziale:
chi in cerca di salvacondotto,
chi illuso di fare il botto,
chi dice che hanno solo rotto.

*

Stanchezza stanchezza stanchezza,
detta con molta franchezza.
È di nuovo imperante tristezza,
sommersi da troppa monnezza.
Smarrita è la via della saggezza,
declinata l’idea di bellezza.
Si fa largo vieppiù l’amarezza,
intorno è spesso indelicatezza.
Basterebbe a volte una carezza,
prevale invece la separatezza.
Per non parlare della spietatezza.
Cresce allora la dissennatezza,
declinazione ultima della pochezza.

*

Metti qualche rima nel tuo mortaio,
come a trasformarti in un fioraio.
Anche se la vita abbruttisce assai,
un sorriso annienta strilli e lai, lo sai.
Basta niente, basta accendere il monello,
e il mondo presto è rifulgente e bello.

(3 aprile)

Giovanni Floris a Otto e Mezzo:

Quando i programmi politici hanno un’audience così alta, quando tutti stanno con gli occhi incollati alla politica [anziché guardare una partita o una bella fiction] non è normale. Significa che la gente è preoccupata. […] E le cose anormali sono rischiose. 

(3 aprile)

  • Tutto è fermo / ma non può durare. Qui / qualcosa scoppia.

(4 aprile)

Tornare a darsi da fare con spirito vivo e desto, oggi e più in generale in avvenire. Lasciar perdere la vacuità degli affari e affanni politici o esistenziali attuali, “elevarsi” (come a Pasquetta consigliava Agata, la maestra-pittrice-locandiera) e impegnarsi in qualcosa che verso metà pomeriggio permetta per esempio di immedesimarsi nel protagonista del romanzo di esordio di Iris Murdoch, Sotto la rete (1954), quando dice (nella traduzione di Argia Micchettoni, Rizzoli 2005, pp. 263-264):

Anche questa parte della giornata mi piaceva. A quell’ora provavo un senso di stanchezza e un sentimento che era quasi del tutto nuovo per me, quello di aver fatto qualche cosa. Il genere di lavoro intellettuale al quale mi dedicavo mi aveva sempre lasciato con l’impressione di non aver fatto niente: si guarda attraverso le cose fatte come attraverso una conchiglia vuota, ma non sono mai riuscito a stabilire se ciò dipenda dalla natura del lavoro intellettuale o da una mia deficienza. Se non ci si sente più in contatto vivo con il pensiero, quale che esso sia, contenuto nel proprio lavoro, questo appare nella migliore delle ipotesi arido e nella peggiore ripugnante; mentre se tale contatto lo si sente, esso finisce per pervadere l’opera con la mutevole vacuità del pensiero attuale. Per quanto potrebbe anche darsi che, se uno avesse dei pensieri attuali notevoli, questi non sarebbero vacui. Mi chiedo se Kant, quando concepiva la sua rivoluzione copernicana, dicesse a se stesso di quando in quando: “Ma è nulla questo, è nulla? Mi piace credere che lo dicesse.

Come poco più avanti (p. 265) ipotizza lo stesso protagonista, pervenire a un giusto mix di lavoro manuale e intellettuale sarebbe forse l’ideale.

Erano passati un paio di giorni, ed era pomeriggio avanzato. Il mio lavoro sarebbe finito entro una mezz’ora circa. Grazie alla mia eccezionale diligenza, era praticamente già finito, ma, sebbene non avessi altro da fare, non potevo lasciare il mio posto fino a che non fossero suonate le sei. Fra pochi minuti, pensavo fra me, sarei andato a lavare il pavimento della cucina; non si lava mai abbastanza il pavimento di una cucina. Per il momento non avevo fretta. Ero molto stanco; e cominciavo a rendermi conto che senza dubbio il principale inconveniente di quel lavoro, sotto altri aspetti affascinante, era proprio quello: stancava troppo. Decisi che un giorno o l’altro avrei fatto in modo di lavorare, qui o altrove, solo mezza giornata: così, nell’altra avrei potuto scrivere un po’. Mi venne in mente che mezza giornata dedicata al lavoro manuale avrebbe dovuto produrre un effetto calmante sui nervi di una persona che passava l’altra metà a fare lavori intellettuali, e non riuscivo a capacitarmi di non aver pensato prima a un tale sistema di vita, grazie al quale non sarebbe passato un giorno senza che qualcosa fosse fatto; così avrei allontanato da me per sempre quella sensazione di inutilità che si accresce nei prolungati periodi di sterilità.

E per quanto nella realtà questo risulti molto più arduo che nella fiction, se non del tutto impraticabile, nulla toglie che sia una bella mèta a cui tendere.

(5 aprile)

È un paese messo assai male
quello che emerge da ogni canale.
Tutti incollati al dannato terminale
a invocare un medico al capezzale.
Mo’ la priorità dicono sia il Quirinale,
staremo a vede’ chi entra papa ed esce cardinale.
Ma l’attesa più vera è di un governo banale,
se non altro un’ordinaria legge elettorale,
prima che si contorca tutto intero lo Stivale
in preda a spasmi incontinenti di natura intestinale.
Perché se non è di troppo disturbo al telegiornale,
vorremmo un giorno vedere un paese quasi normale
e non ridotto ormai a un malato terminale,
nello sprofondo di un quotidiano dramma sociale,
altro che questa penosa pantomima istituzionale.

(6 aprile)

Scoppiò la primaverà, liberò
con i fiori i tanti malumori.

(8 aprile)

Daniele Marini, su «La Stampa»:

Gli italiani in un Paese così spaesato, senza una leadership riconosciuta come tale, sembrano trovare forza più che nelle istituzioni, in loro stessi: in particolare nelle forme associative e del volontariato presenti sul territorio, in chi opera nella costruzione del capitale sociale e delle reti di solidarietà delle comunità.

(8 aprile)

La volontà, questa settimana, è di non cedere all’inquinamento mentale di natura politica (tanto la prossima, con l’elezione del presidente della Repubblica, avremo di che per rifarci).

(8 aprile)

Ma noi, noi, cosa racconteremo un giorno dei nostri anni ottanta, novanta, zero, dieci? Ne parleremo come una lunga sequenza di che? Un’indistinta “mediocritudine”, rotta giusto da qualche lampo controcorrente? O sbaglieremmo a vedere quasi soltanto lati negativi? Faremmo cioè meglio a essere meno critici o, se non altro, “criticoni”?

(9 aprile)

Davide Nota, su un blog dell’«Unità»:

È molto difficile stabilire un dialogo, oggi. I corpi si sono quasi dissolti nella Rete. Il dogma presente ci condanna alla solitudine, alla finzione dei “contatti” senza affetto, senza abbraccio, senza bacio, a morire senza conoscerci veramente, senza esserci mai stretti né raccontati.

(10 aprile)

Disciplina. Disciplina è anche spegnere tutto per le dieci e mezza di sera e andare subito a dormire, per così alzarsi prima al mattino e portarsi avanti negli impegni del giorno. E a dirlo è un grandissimo indisciplinato, che però si rende sempre più conto di sprecare, di questo passo, soltanto tempo ed energie e, in pratica, non concludere quasi più niente di serio o davvero emozionante e gratificante. Da qui, il bisogno di cambiare registro – anche nella vita online. E pur dicendolo per la millesima volta, ma senza mai riuscire a rigar dritto per più di qualche giorno, lo ribadisce: bisogno di cambiare registro anche in rete. Bisogno di limitare le distrazioni. Bisogno di staccare la spina a quello che quasi tutti i giorni finisce per essere una sorta di frullatore più o meno rumoroso e impazzito. Malgrado il rischio, così facendo, di ritrovarsi nell’immediato spenti e apatici e smarriti. Perché è innegabile che staccando la spina, per ritrovare una dimensione più raccolta e pacifica, viene a mancare più di qualcosa. C’è tanto che va perso a livello di espressione-comunicazione-interazione. Ma… ma è un rischio che va corso.

(12 aprile)

Alle cinque del pomeriggio di una radiosa giornata di lavori all’aperto sentire il bisogno di rifocillarsi inzuppando del pane nel vino cotto. Vous ne pouvez imaginer quelle madeleine !

(16 aprile)

Su tutto, il trionfo della primavera.

(17 aprile)

Una delle cose che riesce più difficile di questi tempi: gioire. Un’incapacità di gioire effetto delle tante situazioni negative che viviamo; spesso, però, anche tra le cause dirette di queste stesse situazioni, in un classico caso di cane che si morde la coda. Torna allora quanto più d’attualità l’editoriale che nel maggio 2008, nel quarantennale del maggio parigino del ‘68, scrisse il direttore del mensile letterario francese «Lire», François Busnel:

Allez, basta 68! De cette mini-révolution qui fait inutilement couler tant d’encre, conservons l’un des mots d’ordre: « Jouir sans entraves. » Et si c’était ça, la véritable “révolution” soixante-huitarde? Un mot. Jouir. Tiens, tiens. C’est un beau mot, ça, jouir. Et si mal perçu. Si peu utilisé. Bien mal vécu. A force de l’employer, ce mot, et de le mettre à toutes les sauces (psychologique ou romanesque), on l’a peu à peu vidé de sa substance. On lui a ôté tout son sens. Revenons au sens, précisément. Et, donc, à la philosophie. Les philosophes, qui font profession d’interroger la vie, ont-ils quelque chose à nous apprendre sur l’art de jouir? Quel rapport entretiennent-ils avec le corps (le leur, le vôtre)? Les temps changent. Il y a encore quelques années, on n’aurait sans doute jamais osé consacrer la couverture d’un grand mensuel littéraire aux liaisons – forcément dangereuses – qu’entretiennent la philosophie et le sexe. Aujourd’hui, force est de constater que l’on ne peut plus lire de philosophie sans s’attarder sur l’autobiographie qui la sous-tend: on ne pense pas in abstracto mais à partir de son corps, sain ou souffrant.

E per riandare al tema del giorno – che inevitabilmente continua a essere la politica – forse è il caso che anche a sinistra si riscopra il valore della gioia e dell’idea che «non si pensa in astratto ma a partire dal proprio corpo, sano o sofferente». Per favore, perciò, politici più o meno di sinistra: risparmiateci la tristezza, domani e nei prossimi giorni/mesi. Non ultimo, risparmiateci la tristezza al potere (che abbiamo già visto i danni che produce).

(19 aprile)

  • quello che era / quello che è adesso / quello che sarà

(20 aprile)

Era il 25 maggio 2012 e annotavi: «Leggi e senti dei numerosi sommovimenti politici in corso e pensi: da qui a pochi mesi assisteremo a un rimescolamento totale delle carte, in un tourbillon di nuove discese in campo, nuovi soggetti politici, nuovi leader (forse) e nuove alleanze (forse). Purché alla fine non cambi tutto solo per non cambiare niente, ovvero per ritrovarci con la solita vecchia politica politicata, come dopo gli anni di Mani pulite. A essere franco, però, che voglia di prenderti un anno sabbatico e scomparire da qualche parte, per avere al ritorno il giusto distacco per poter dire se davvero sia cambiato qualcosa oppure se, nei fatti, sia rimasto tutto come è adesso.» Quanto eri ottimista! Cambiare è cambiato quasi tutto, in un anno, ma decisamente in peggio, con un quadro generale ancora più deteriorato, un vero ritorno indietro di vent’anni. Quanto al desiderio di prendersi un sabbatico e scomparire da qualche parte, che illusione l’idea che potesse bastare un anno soltanto: minimo ce ne vorrebbero tre o quattro di anni lontano dall’Italia – e più ancora da tutti i media, internet più di ogni altro – per riuscire davvero a disintossicarsi e acquisire una beata distanza. Ma alla fin fine, a che pro?

(20 aprile)

Dopo l’harakiri in diretta tv del Pd, con la mancata elezione a presidente di Prodi grazie ai 101 dei “suoi” che nel segreto dell’urna gli hanno votato contro, altro bel “capolavoro” che si prepara, sì, crescendo le pressioni per un bis di Napolitano: classico esempio di come il breve e brevissimo termine prevalgano sempre sul lungo e sul medio. Oggi si metterebbe forse una “pezza”, d’accordo; ma domani? Domani – fra un anno, fra due, fra tre… insomma, quando per un motivo o per l’altro Napolitano dovesse interrompere anticipatamente l’eventuale secondo mandato – sicuri che saremmo messi meglio di oggi? Sicuri che non saremmo di nuovo – e anticipatamente – “a ccape da pié” anche al più alto livello istituzionale?

(20 aprile)

ilNichilista, su Facebook:

Il Paese chiede cambiamento, loro architettano un Napolitano-bis. Cioè la più conservatrice delle scelte. Buona fortuna, alle prossime elezioni.

Lucia Annunziata, commentando in tv:

L’ennesimo default dei partiti.

(20 aprile)

Dal blog «La versione di Chamberlain»:

L’immediatezza delle informazioni ci ammazza, e forse non abbiamo il fisico e gli strumenti per reggere il peso della politica della verità.

How true! Siamo troppo fragili, o per meglio dire troppo sovraesposti a un flusso informativo continuo. È altrettanto innegabile, però, che siamo oltremodo stanchi degli accrocchi di una politica che non sa emendarsi; da qui le nostre facili esasperazioni e i sempre più ricorrenti moti di isteria.

(22 aprile)

Il discorso di insediamento del Napolitano bis: di come il nonno-patriarca, chiamato a riportare una parvenza di ordine in una famiglia sull’orlo del baratro, prende a scudisciate verbali i figli rissosi, inconcludenti e inetti, mentre accarezza – ma giusto un po’ – nipoti a metà tra lo scapestrato e il disorientato. Ci sarebbe stato poco da applaudire, perciò; era solo da chinare il capo e tacere.

(22 aprile)

Quasi soltanto misfatti, ricatti, inganni, malanni,
la storia politica degli irrisolti, perduti, migliori anni.
Dai venti ai cinquanta, poco più che patacche, baldracche,
ruffiani, gradassi, pateracchi e inverecondi cambi di casacche.
Il campo degli entusiasmi un fitto groviglio di macerie,
si addensano grevi i fumi di spoglie pire funerarie.
Bruciano, senza rimpianti, vecchie appartenenze.
Si spengono, fiaccate, antiche e più recenti credenze.

(23 aprile)

Gesualdo Bufalino:

Capita a volte di sentirsi per un minuto felici. Non fatevi cogliere dal panico: è questione di un attimo, poi passa.

(23 luglio)

Era vivo, esisteva ancora, ma in rete (e, per la verità, non solo lì) era una presenza sempre più flebile. Forse non era più lui. Magari era tornato a essere il vero lui, chi lo sa. Di certo, aveva ripreso a essere molto fuggevole: compariva brevemente, poi subito si dileguava. In compenso pareva che leggesse più – e probabilmente meglio – di quanto non facesse da anni. E questo, se non lo riempiva di gioia, era senz’altro motivo di soddisfazione.

(2 agosto)

“Accadono, prima o poi, eventi a lungo attesi, desiderati o temuti”, pensava. “Spesso, però, finiscono anche per lasciarci piuttosto indifferenti: non ci accalorano né ci raggelano. È solo l’inevitabile corso delle cose.”

(19 agosto)

Poteva quasi dire, dell’estate 2013, poco passato ferragosto, che fu l’estate in cui dimenticò il computer: smise di usarlo con quotidiana intensità e ossessione; smise di badare e pensare lungamente alle email, ai blog, ai social network; e per giorni smise anche di consultare le news sui siti nazionali e internazionali, le questioni politiche interne meno che mai. Smise di essere, insomma, quello che era diventato negli ultimi quindici anni, da quando internet aveva rivoluzionato – e per lunghi tratti monopolizzato – la sua vita. Cosa lo aspettasse, ora, non sapeva dirlo con una minima idea di certezza. L’unico elemento di cui a quel punto poteva essere ragionevolmente sicuro era che non sentiva troppo la mancanza della persona che tanto a lungo era stato; lo sollevava, anzi, averne finalmente – e fino a prova contraria – perso le tracce.

(23 agosto)

Mutande (ma anche no), maglietta a coprire la pancia (ma anche no), divano con cuscini poggiatesta, lampada accesa sul comodino, penombra, rock ballabile a palla di Rock the Night su Radio Capital, lettura di Friday Night Lights e… era un godurioso venerdì notte di fine agosto.

(28 agosto)

Otranto. O quanto gli piacque nuotare pericolosamente in quel quieto e limpido mare e, nella cattedrale dei Martiri, assistere a un matrimonio in rosa e panna.

(30 agosto)

Il tramonto sul mare è bello. L’alba lo è forse di più. E alzarsi appositamente per viverla, specie in vacanza, magari il giorno in cui è già tutto pronto per ripartire, riesce a dare ogni volta sensazioni uniche, quello slancio di cui c’è tanto bisogno per affrontare con brio le sfide quotidiane della vita.

(2 settembre)

Vale per i messicani, emigrati negli Stati Uniti e non. In questa stagione vale probabilmente anche per tanti italiani. Vale sicuramente per chi scrive: cercare (di nuovo) di reinventarsi.

(4 settembre)

Siete in una bella cittadina italiana e volete visitarne il museo? Non ricorrete alle indicazioni della gente del posto.

The museum is unreachable if you depends on directions from local citizens who don’t know what it is, much less where it is—or why, when there is eating or sleeping or talking or sexing to do, you should want to immure yourself in a museum?

Giudizio di Kate Simon in una vecchia (1970) guida dell’Italia minore: Italy. The Places In Between. Forse qualche stereotipo di troppo, ma in genere lo sguardo dello straniero coglie più in profondità di quello del locale, intorpidito. E l’occhio di Kate Simon è molto, molto attento e perspicace.

(4 settembre)

No, vi prego, risparmiateci la moda “hipster”.

PS Tardi, troppo tardi! Anzi, troppo vecchio tu, ormai, per digerirla.

(11 settembre)

Ricerche secondo cui Facebook ci renderebbe più tristi e soli e altre per le quali sarebbe vero il contrario. Tutto sembra dipendere dall’uso che se ne fa. Maria Konnikova, in un post del «New Yorker»:

The key to understanding why reputable studies are so starkly divided on the question of what Facebook does to our emotional state may be in simply looking at what people actually do when they’re on Facebook. “What makes it complicated is that Facebook is for lots of different things—and different people use it for different subsets of those things. Not only that, but they are also changing things, because of people themselves changing,” said [the psychologist Samuel] Gosling. A 2010 study from Carnegie Mellon found that, when people engaged in direct interaction with others—that is, posting on walls, messaging, or “liking” something—their feelings of bonding and general social capital increased, while their sense of loneliness decreased. But when participants simply consumed a lot of content passively, Facebook had the opposite effect, lowering their feelings of connection and increasing their sense of loneliness.

Del resto, già Stephen Marche sintetizzava, su «The Atlantic»:

 For the most part, Facebook doesn’t destroy friendships—but it doesn’t create them, either.

(12 settembre)

Leonardo Tondelli sul suo storico blog, facendo un riassunto piuttosto preciso della situazione in Italia:

Mi piace imparare le cose, insegnarle, impararle di nuovo, mi piace cercare di capire, e litigare, soprattutto con gli sconosciuti sull’internet. Tutto questo divertimento, che vergogna, mi compensa evidentemente del vivere in un Paese che va in malora.

Rispetto a lui, sei molto meno capace di divertirti, per niente portato a insegnare e soprattutto non ti piace litigare, meno che mai con gli sconosciuti in rete (anche se qui, in passato, alle volte ti è forse capitato di andare un po’ fuori dalle righe). Ciononostante, resta più che condivisibile la conclusione:

Forse avevo bisogno di un Paese di mediocri più mediocri di me, e l’ho trovato, senza neanche troppo viaggiare. Forse. Forse l’Italia è il Paese che mi merito.

(14 settembre)

Mela Cotta Saturday Night Party

Ingredienti per un sabato sera davvero “oltre”? Mele Gala (2+2) cotte nel vino cotto, con uno sciroppo di zucchero; una sana voglia di prendersi sonoramente in giro; la musica di Capital Party (anni 70-80) in sottofondo. Effetti collaterali: dita appiccicose; ridarella; schiusura di narici.

(18 settembre)

Mentre erano in corso le operazioni per il parbuckling della Concordia si poteva cogliere tutto il fastidio di politici e commentatori politici – ma anche di un po’ tutti i giornalisti – per il fatto che togliesse spazio e visibilità al loro chiacchiericcio quotidiano sul nulla. Tranquilli, però: è passato poco più di un giorno da un felice risultato pratico (per una volta) e, come se nulla fosse, possono ora tornare a esercitarsi nel loro sport preferito: rivoltolarsi senza fine nel nulla, appunto. PS Fesso chi gli dedica ogni giorno più di cinque minuti del proprio tempo.

(18 settembre)

Sempre più bello Narratively. O, semplicemente, è la molteplicità e varietà e qualità delle storie che riesce a partorire e raccontare quotidianamente una città come New York che incanta. Unico inconveniente: nell’inevitabile confronto con il panorama non soltanto locale, ma italiano in genere, ci si sente ogni giorno più piccoli e mediocri.

(19 settembre)

As today OED Word of the Day suggests, here we are, a lot of us in need/search of a real palingenesis in this stage of the year and our life.

(27 settembre)

Commenti mattutini alla radio: un paese cotto, in confusione; il punto più basso della storia della repubblica. GOOD MORNING ITALIA!

(27 settembre)

Hai sbagliato quest’anno. Hai sbagliato a non tornare a fare una vendemmia professionale (nell’occasione, in qualche grande vigneto del chietino, tra Tollo, Ortona e Orsogna o anche più giù, verso Torino di Sangro e Casalbordino). Merita ogni tanto farne una. Merita sfaticarsi un po’ seriamente. Merita prendere parte a qualcosa di davvero vivo.

(30 settembre)

Cesare Cases introducendo, nel 1985, un suo carteggio con Lukács:

L’uomo si definisce solo scegliendo e scartando. Il rischio di sbagliare c’è sempre, ma è meno grave di quello di perdersi nella melma dell’accettazione universale.

Andrea Casalegno, su «L’indice dei Libri», recensendo, di Cesare Cases, Scegliendo e scartando. Pareri di lettura (a cura di Michele Sisto, Aragno, Torino 2013):

Non soltanto l’uomo, anche un buon catalogo si costruisce “scartando”.

(30 settembre)

Di grazia, quand’è che ritroveremo un po’ di vera grazia (intesa come bellezza, armonia, eleganza, garbo, civiltà, felicità, benessere, incanto)?

(3 ottobre)

Leggere, leggere. Leggere roba seria, libri se possibile, ma anche belle riviste, con pezzi lunghi, articolati, non cazzatelle spicciole, legate al nostro mediocre quotidiano, e anche storie notevoli.

(8 ottobre)

Tardiamo. Tardiamo a fare un sacco di cose. Tardiamo a capire. Tardiamo a ripensarci. E tardiamo a rimetterci in moto, tardiamo a rimetterci in piedi. Tardiamo a tirare una linea, e quando finalmente lo facciamo è, appunto, spesso troppo tardi.

È chiaramente un pensiero crepuscolare, questo, di quando si sente finire la propria estate e avanzare il proprio autunno. E che in questo momento si viva, oltre all’autunno meteorologico, anche un autunno (se non addirittura un inverno) collettivo, nazionale, non è di aiuto.

Ed è pur vero che possiamo sempre incidere significativamente e individualmente sulla nostra situazione. Ma sono tanti e reiterati e non sempre superabili di slancio gli ostacoli (anche di origine collettiva) sulle nostre strade. E ancora più spesso pesano come macigni tante, troppe scelte sbagliate (ma anche le scelte non fatte – per tempo) di un passato più e meno remoto.

Così, ci si prova pure a sottrarsi alla negatività e al non darsi troppo addosso da soli (fermo restando che in tanti casi occorre proprio essere “spietati” con se stessi, prima ancora che con gli altri; occorre cioè riconoscere i propri errori, le proprie colpe, i propri limiti, e non continuare troppo a lungo a fare quasi finta di niente).

Ma di fronte alle tante scene di deterioramento che si parano quotidianamente davanti ai nostri occhi è difficile, molto difficile, sottrarsi, per dirla con Pasolini o Lindo Ferretti, a una «irata» – ma sempre meglio che rassegnata – «sensazione di peggioramento».

(16 ottobre)

We need things that last. We need quality, not only quantity. It’s pretty a silly thing to say today, in such a consumer and throw-away culture and society, but it’s also something one cannot avoid thinking over and over again. The problem, maybe, is that true quality — and true appreciation of quality too — needs a protracted, inexhausted, lifelong process of learning, training and practice. But we are no more used to this either.

(17 ottobre)

Crisis — a personal as well as general situation where you can’t say with assured certainty and credibility what is coming next. A limbo where all can still happen, for the better or for the worse, but we have lost our ability to predict any possible outcome of our daily decisions and actions.

(17 ottobre)

Sempre più spesso scoprirsi a pensare e scrivere in inglese. E non credere sia solo il fatto che in inglese sono ormai gran parte delle letture. La sensazione è che questa dismissione linguistica celi la crescente insofferenza e stanchezza per l’Italia e l’italiano di oggi.

(22 ottobre)

La vita #primadiinternet? Prima di internet si era più concentrati – sì, concentrati a fissare il soffitto, al buio, quando non si sapeva come arginare la noia e la stanchezza e la solitudine e la tristezza e le lacrime di certe giornate o sere preda di una sensazione estrema di vuoto galoppante, quando né lo studio né i lavori né la lettura né la tv né i film al cinema né la musica dei dischi o alla radio né altre presenze amiche riuscivano a essere di conforto. Prima di internet la cifra vera di tante sere d’autunno era una sensazione dolceamara di assenza, apatia, malia. Non era una meraviglia, perciò, la vita prima di internet. Non lo è manco adesso, è chiaro. Non lo sarà mai. L’insoddisfazione del presente è la dimensione ultima dell’uomo, quello preistorico come quello postmoderno come quello che verrà.

(23 ottobre)

Tornare oggi, potendo, non a dieci, non a venti, ma a trent’anni fa. Tornare lì, e però ribaltare tutto, o quasi. Essere inclemente, per nulla accomodante. Anche più egoista, forse. Ma soprattutto deciso, non soltanto insoddisfatto del mondo intorno. Doveva valere trent’anni fa questo proposito. A maggior ragione dovrebbe valere oggi. Oggi che non possiamo accampare più scuse. Oggi che, se non abbiamo ancora imparato, non impareremo mai più.

(25 ottobre)

Il pessimista – chi osserva con discreta attenzione il mondo attorno a sé, le cose che succedono come quelle che non si realizzano, traendone la conclusione che poco o nulla va come a suo modesto parere dovrebbe o potrebbe andare, ed è per giunta fortemente scettico che questo stato possa volgere in meglio nel breve termine, senza prima un cambiamento sostanziale del modo generale di essere e di fare. Il pessimista – questa losca figura, sempre vista come un discreto menagramo da chi è invece convinto che no, le cose non vanno così male per lui/lei, non ancora cioè, o non ancora del tutto. Il pessimista – chi, suo malgrado, alla lunga spesso finisce per avere ragione.

(23 novembre)

Prima o poi la farà completamente finita con “frammenti” sparsi di vario genere. Nel frattempo, considerando in buona sostanza il frammentario e il dispersivo la (sua) vera cifra odierna, sforzarsi periodicamente di ricompattare in un posto solo parte di quanto va seminando qui e là gli sembra comunque un buon esercizio.