Quel fine d’anno

There’s always something in what we do that adds up to nothing, at the moment at least.

Quel fine d’anno, come non mai, avrebbe voluto lasciare l’Italia e, così facendo, venir via da un contagioso ed estenuante clima di negatività.

In giro, sempre più spesso, gli pareva di cogliere non tanto una sensazione di immiserimento (che pure c’era, diffusa e avvilente, sul piano materiale come su quello umano) quanto l’idea che, malgrado le cospicue false apparenze esterne, non fossero mai cresciuti sul serio: come popolo e paese, per cominciare, ma a ben vedere anche come persone. Gli sembrava che di diventare adulta, a tutto tondo, tanta gente non avesse la minima intenzione. Era di conseguenza convinto che gli italiani del terzo millennio restassero al loro fondo, individualmente e collettivamente, piuttosto immaturi; in tante circostanze gli parevano anzi regrediti a livelli bambineschi. E sbagliasse o no, in questa come in altre valutazioni critiche, era insomma viepiù perplesso e a momenti esausto del mondo intorno a sé. Per questo un forte desiderio di evaderne.

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Non che fosse iniziato sotto una buona stella, quel 2013. Avere un lutto improvviso in famiglia il 31 dicembre, passando così gran parte del capodanno in una camera mortuaria, e in quegli stessi giorni far fronte a una serie crescente di apprensioni per una causa o l’altra, sempre a partire da quelle di ordine familiare, non che potessero predisporre al buonumore e a uno spirito vagamente positivo e costruttivo. Metti poi la demenziale situazione politica italiana pre e post elezioni del 24-25 febbraio, venuta ad accentuare un già marcato (e, a conti fatti, tutt’altro che infondato) pessimismo, spesso avvelenando anche il clima dei rapporti personali. Ricordava per esempio scambi tesi su Facebook, dove alle volte bastava mettere un link, citare una frase o esprimere un giudizio non particolarmente elogiativi o all’opposto non abbastanza dispregiativi di un partito, movimento o esponente politico e, subito, ci si poteva aspettare una pioggia di commenti caustici (per quanto ripetitivi nella sostanza e poco o niente costruttivi), cercare di svelenire i quali spesso si rivelava fatica sprecata, oltre che impresa improba. Poi di nuovo un lutto pesante in famiglia, per quanto non imprevisto, a fine aprile. E tante altre situazioni non delle migliori, a più livelli: affettivo, relazionale, lavorativo, sociale.

Il tentativo di fronte a ciò di mantenere una facciata serena, pacata, disponibile, nei limiti del possibile anche accomodante. All’interno, tuttavia, la consapevolezza di un galoppante, opprimente disagio. Il sentire di nuovo con forza di essere a uno snodo davvero critico dell’esistenza, individuale e collettiva.

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Mancava ora un mese alla fine di un anno che oggettivamente avrebbe definito brutto, pur consapevole che non tutto fosse da buttare.

A livello personale credeva di essere maturato a sufficienza, o comunque di procedere più che in passato lungo un percorso di piena consapevolezza, con l’assunzione di tante responsabilità fino ad allora sviate o rimandate. Proseguiva, come già da qualche anno, in un processo di graduale ma consistente ritaratura di sé. Forse non stava ancora dando i risultati auspicati, sperati, vista la stasi (quando non l’arretramento) che alla prova dei fatti si registrava su più fronti; tuttavia il processo era in corso.

Mancava probabilmente più coraggio. Mancavano soprattutto più passione, più entusiasmo, più slancio, stabili, saldi, non di breve, miserrima durata. E mancavano ancora costanza, regolarità, disciplina, rigore.

Il «qualcosa di più e qualcosa di meno, in ogni caso meglio, con più riflessività e meno impulsività» sotto la cui dizione il 7 gennaio era esordito ufficialmente sul nuovo blog gli pareva però rispettato. Come gli pareva che cogliessero nel segno molte delle cose appuntate pochi giorni prima, in un post non a caso intitolato Verso l’anno nuovo. Non che tutto fosse poi andato come lì auspicava (soprattutto sul piano politico, di maturità in quell’anno altamente “disfunzionale” ne avevano vista in azione ben poca), ma la direzione indicata pensava che fosse quella giusta. Si trattava di continuare a crederci, agendo sempre secondo quelle linee, semmai solo con più determinazione e incisività.

In conclusione, non sapeva se si potesse definire il 2013 un anno andato a ramengo. Non era stato un periodo esaltante, d’accordo; la depressione era anzi il sentimento che a lungo l’aveva accompagnato e più lo aveva segnato sotto plurimi aspetti. Sarebbe però stato ingeneroso parlare di un anno completamente sprecato, dunque da buttare in blocco. Forse c’era poco da salvare, ma quel poco poteva essere la chiave di volta per quello che sarebbe venuto – finalmente in meglio, sperava, almeno per qualche tempo – da lì in avanti.

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In quel mese che adesso restava per voltare anno continuava intanto a riflettere, sforzandosi di fare un poco più di chiarezza nelle proprie idee su questo e su quello. Pensava alla propria situazione, a quella delle persone a lui più care e, indirettamente, al paese nel suo complesso. Non di rado era preso da sconforto; ma riprendendosi da quegli attimi ricorrenti di pessimismo acuto, pensava e diceva anche che non bisognasse abbattersi più di tanto né tantomeno arrendersi.

Un pensiero fisso era a come li avessero cambiati a fondo, spesso amaramente, gli ultimi venti-trent’anni, e a come con quel mutamento avrebbero dovuto farci i conti a lungo e senza mezze misure: per capirne le dimensioni vere, le ragioni e le implicazioni sul presente e più ancora il futuro. A suo avviso, la storia politica e in parallelo esistenziale dell’Italia dagli anni ottanta del vecchio secolo agli anni dieci di quello nuovo era qualcosa che aveva drammaticamente esaurito parecchie energie positive e spento o fiaccato molti entusiasmi, lasciando in eredità montagne di speranze infrante e non pochi risentimenti.

Su quelle basi, ripartire e ricostruire sarebbe stato durissimo, ma era un compito dal quale non ci si poteva esimere. Di errori, ne era certo, ce ne sarebbero stati ancora tanti – perché si sbaglia sempre, per un verso o per l’altro, diceva. L’importante era farlo sempre e soltanto con la propria testa – ma dopo ognuno di questi avrebbero dovuto trovare di nuovo la forza per rialzarsi.

L’abbandono e la fuga, tanto dalle responsabilità quanto da progetti e sogni, non erano più ammessi (non alla leggera, cioè; non senza prima valutare pro e contro; non senza prima battersi sul campo).