Memoir, longform, nonfiction. O, così leggeva

Leggerli soltanto, i libri? No, studiarli per bene, dal primo all’ultimo finito tra le nostre mani. Allora forse se ne scriverebbero di meno, se ne scriverebbero di migliori: un bel guadagno. E imbroccato un filone di lettura, insistere, fino a non poterne più.

Così pensava. Così annotava. Così leggeva.

Ora era tornato con forza sul filone dei memoir. Una passione iniziata suppergiù da quando aveva letto in originale – e subito dopo proposto per la traduzione (accolta) – Stop-Time di Frank Conroy (uno dei prototipi del moderno memoir americano, come aveva letto e mandato a memoria), dunque undici anni prima.

In quell’arco di tempo la collezione dei must-read del genere non aveva fatto che crescere, grazie soprattutto ai volumi usati e a prezzi scontatissimi reperiti su AbeBooks (indifferentemente le versioni inglese e italiana). Aveva dunque solo l’imbarazzo della scelta; tutto il modo di impazzire fino in fondo dietro al racconto brutalmente onesto delle vite degli altri.

Sotto allora con la lettura di memoir, in aggiunta alle raccolte di giornalismo narrativo o longform e in generale la nonfiction, più e meno creativa.

Fermo restando che non bastava – non era mai bastato – leggere per leggere: gli andava associato un fare. Un fare pratico. Che fosse scrivere, tradurre o fare altro.