I tempi del disamore. E il tempo di nuovi amori

[Riprendendo – e completando, forse con eccesso di rosolio – un vecchio post.]

Quant’è il tempo necessario per liberarsi di tutti i detriti di un lungo amore – dapprima intenso, poi contrastato, infine rovinosamente perso – e non pensarci più?

Sei mesi? No, un’inezia: ancora troppi i ricordi belli e tentatori; troppe le ferite ancora dolenti.

Un anno? Nemmeno: è forse il momento in cui più forte è la smania di riprovarci, ma, in genere, finendo per farsi ancora più male e rilasciarsi in più malo modo.

Due anni? Già si comincia a ragionare meglio, specie avendo avuto il buonsenso, nel frattempo, di non tornare mai sui propri passi: le ferite sono sufficientemente rimarginate; i ricordi lieti non ossessionano più; inizia a stabilirsi un più pacato distacco.

Ma, forse, è solo al terzo anno dalla fine di un amore che la storia può dirsi chiusa davvero: non ci pensiamo più, come a un chiodo fisso, specie a riprovarci; e, cuore e mente sgombri di detriti, torniamo a funzionare e ragionare a livelli un po’ più accettabili.

Il quarto anno, poi, è quando la testa riprende sul serio ad assistere con buona efficacia e continuità, senza assillarsi più troppo per ciò che non è più.

Giunti al quinto anno, spurgati per bene delle residue tossine nostalgiche, è infine il tempo di ridarci sotto con quanto di meglio sappiamo ancora esprimere, riprendendo a inseguire senza timori nuove storie, abbracciando altri progetti e amori con rinnovata passione e, quanto più, ritrovato sorriso.