I pezzi, i pezzi. Non siamo pazzi – ancora non del tutto – ma i pezzi del puzzle che è la vita non cessano mai di aumentare, finché c’è vita. Qualcuno trova subito l’incastro giusto, colmando un vuoto e perfezionando il quadro; altri devono aspettare che il quotidiano lavoro d’intarsio ne produca di nuovi.
Tutti scriviamo oggi, pur non sapendo che cosa.
E succede che scrivo, quando non scarabocchio, / o che leggo rapito, se non mi impapocchio. / Via dal ludico schermo riaffiora il respiro, / dentro di me è un pacato sospiro. / Sono momenti di calma dentro alla stanza, / fin quando non scatta l’idea di una danza. / Faccio a meno di te non più che del tè, / solo il pensiero è alla vita che è.
Ci mettiamo anni, se abbiamo una fortuna straordinaria, a capirci qualcosa. Potremmo anche illuderci di capire. Potremmo anche non farlo mai.
Lasciarci dietro il passato: come è difficile, quando la nostra è molto spesso una vera coazione a ripetere. Edward Dahlberg direbbe, per il tramite di Rodolfo Wilcock: «il fatto è che l’uomo viaggia da un letto all’altro solo per trovare una donna identica a quella che ha abbandonato. Se per caso è abituato a sessanta chili di carne, ed è stato irrazionale abbastanza da supporre che una maggiore quantità di pelle gli avrebbe dato più piacere, si troverà a morire dalla fame davanti a un corpo di novanta chili».
L’importanza di avere un’agenda, andavi dicendo e scrivendo. L’importanza anche di tenere un diario (o se vogliamo un blog) e annotare via via le impressioni immediate sulle situazioni del momento. L’importanza anche di tornarci su, a distanza di tempo, e ripercorrere e rileggere retrospettivamente quei mesi, quegli anni. Il giudizio che se ne ricavava poteva essere cocente, ma era un’operazione necessaria. Era necessario riflettere sul proprio passato, più e meno recente. Per noi italiani era in particolare necessario riflettere a fondo sugli ultimi venti-trent’anni della nostra storia nazionale. Se non volevamo infierire troppo su di noi, dovevamo farlo almeno sugli ultimi dieci anni. Quello che poteva venir fuori era, come nel nuovo libro dello storico Guido Crainz, il «diario di un naufragio». Sconsolante forse, ma toccava farci i conti. Perché «se una nuova partenza [era] possibile, [poteva] avvenire solo da qui».
E la pioggia e la pioggia, / e la pioggia che scende / sul nostro essere ammollo. / E la pioggia e la pioggia, / e il ricatto del tempo. / E la pioggia e la pioggia, / e i disastri dei tempi. / E la pioggia e la pioggia, / e il mai esser contenti.
Avoja a di’, quanne ce sta lu sole è tutte naddre munne.
È la velocità di tutto che ci uccide (anche più della nostra infinita irresolutezza). Ci uccide la frenesia. Ci uccidono le (brutte e belle) notizie a ciclo continuo. Ci uccidono la frantumazione, la disgregazione, il nostro essere sempre di più atomi liberi, sciolti, non legati all’interno di qualche molecola. Nel nostro profondo aneliamo all’aggregazione, ma ci siamo così crogiolati nella libertà incondizionata (che ci pareva celasse chissà quale paradiso, a fronte delle prigioni e delle trappole nelle quali ci sembrava di stare immobilizzati) da non esserne più capaci, da non essere più disposti a sacrificare qualcosa di noi per un bene superiore.
E il non sapere, se non raramente, tener fede a quella che invece dovrebbe essere una regola ferrea: mai investire – soldi, ma anche tempo ed energie – in settori che non siano il proprio, lavorativo o vocazionale, nemmeno nell’evenienza di potenziali ricadute positive; concentrare l’impegno diretto quanto più nel proprio campo, e qui sì senza il braccino corto; dedicarsi a tutto il resto solo per spasso o come fonte di spunti e idee utili, ma sempre con avveduta morigeratezza. Le persone davvero di successo lo sanno e lo fanno; le altre molto meno. Questo a prescindere dal fatto che sono gli incontri che facciamo – siano persone, siano interessi, amori, passioni – a decidere della nostra vita.
Pochi di noi hanno in dote dalla natura un talento smisurato. E anche chi ne è baciato, senza esercizio e disciplina non fa molta strada. C’è poi che possiede un talento minuto, limitato, ma con impegno e passione riesce a farlo rendere al massimo grado.
Una certa aridità di cuore e anche una assai poco accattivante dose di noia devono per forza di cose accompagnare chi è impegnato “anema e core” a perseguire i propri sforzi, lavorativi e di vita. Non si realizza qualcosa senza sacrificarne qualcun’altra.
Come era cambiata l’Italia nel 2013, si domandava. Da disincantata e mediamente avvilita a esaurita e quanto più sfinita, si rispondeva. Urgeva cura ricostituente, previo passaggio in sanatorio.
Dormire non gli riusciva più tanto bene, no. Non quando ci si metteva di mezzo il disastro della politica e dell’Italia. Nemmeno pensare troppo bene gli riusciva più, probabilmente. Ma di andare a farsi qualche vasca in piscina forse sì, di questo poteva essere ancora capace. Spegneva tutto e scappava in città, allora, ché ne aveva bisogno, ché anche delle sue parole al passato era più che stufo.
Con un ritardo di trent’anni, ma, fatte fuori gran parte delle incrostazioni del passato con un vero “elettrochoc”, forse si poteva finalmente dire, anche in Italia: benvenuti al futuro, con le sorprese e i sussulti che questo avrebbe elargito.
La violenza delle immagini, la violenza dei suoni e anche la violenza delle parole (sugli schermi, sui giornali, nelle aule dei parlamenti, negli stadi, nei bar, nelle strade, nelle piazze reali come in quelle virtuali, e pure dentro le nostre case, in realtà dentro quasi ognuno di noi): è un dato che emerge con particolare e preoccupante evidenza come le forme espressive violente siano (ri)cresciute in questi anni. C’è da interrogarsi. C’è da moderarsi. C’è da riprendere a funzionare con più assennatezza.
Schizzati i sentimenti nostri, senza più filtri, senza più freni. Esagitati, incazzati, disperati, disincantati, avviliti, esaltati, esibizionisti, saccenti, anime belle, depressi, alienati. Nella pubblica piazza non guadagniamo a far mostra di noi. Più spesso siam fessi, più spesso siam lessi, più spesso siam genuflessi a istinti irriflessi.
Ci ha risolto diversi problemi il digitale, è innegabile. Come quasi tutte le innovazioni, però, pensi che ce ne abbia anche creato altrettanti, se non di più. In particolare, non reggiamo troppo bene alla sua velocità. Mezzi più “lenti” ci sono forse più congeniali, permettono una maggiore sedimentazione delle notizie, delle storie, dei concetti; il cervello non si surriscalda in un nulla, quindi sostanzialmente funziona meglio. Questo secondo te, secondo la tua esperienza diretta; per altri può valere senz’altro il contrario.
Se ci si pensa, è questa la situazione di oggi: abbiamo il “condimento”, abbiamo l’“olio”, anche buono, anche superlativo, ma comincia a scarseggiare o a essere parecchio indigesto il “pane” a cui abbinarlo. E soltanto con l’olio, ma senza il pane, ci si fa poco.
Manca il “pane” ogni giorno di più, manca la sostanza. E mancano gli “interpreti”, intermediari seri e credibili. Mancano i “filtri”, insomma, filtri che tengano. Siamo noi – ciascuno di noi – i filtri. Così, siamo travolti dal flusso informativo. Così, tutto può ingigantire o all’opposto scomparire in un niente; tutto dipende dal verso che prende la spirale. Non c’è permanenza; solo irruenza e decadenza.
Dicono che scrivere sia il primo passo per diventare scrittori. Ma il primo passo per arrivare a scrivere (tanto e bene) è in realtà leggere (tanto e bene) o quantomeno ascoltare (tanto e bene) ma soprattutto osservare (tanto e bene). Poi è chiaro: più scrivi e più ti verrà da scrivere, anche se bene o male è da vedere. Solo rileggendoti ad alta voce a distanza di tempo puoi sperare di capire se hai fatto progressi e trovato suppergiù una tua voce o all’opposto sei malamente regredito: se non ti dispiaci più di tanto, puoi proseguire con fiducia, ma non è detto che sia nel migliore dei modi; se invece il sentimento prevalente è la vergogna, forse è solo allora che sei sulla strada giusta, solo allora che hai preso piena coscienza di te, dei tuoi limiti, magari di qualche tuo pregio.
In the end you can say, matter of factly: ebooks suck! Useful and practical, maybe, but truly unbeautiful, truly forgettable. More apt to be read with pleasure and devotion a second-hand book. Much the same, more apt to receive one’s impromptu thoughts a small chunk of paper.