Il diritto anche alla sconfitta

Per la serie, letture e meditazioni (pre)ferragostane: una bella pagina di Giorgio Manganelli su quella «qualità umana, preziosa, e che tutti noi (…) conosciamo» che è la sconfitta.

improvvisi per macchina da scrivereTornare a casa è sempre stato oneroso per gli sconfitti. Coloro che hanno perso qualche volta vengono uccisi; qualche volta vengono circondati da un disprezzo gelido, destinato a non lasciarli più per tutta la vita; capita anche che vengano accolti con solidale coraggio, con una severa accettazione, come accadde ai romani dopo Canne. Non è detto che quest’ultima accoglienza sia specialmente confortante. Ma tant’è, chi ha perso ha perso, e se non è morto peggio per lui. Ecco, lo sconfitto che non è sopravvissuto alla sconfitta in qualche modo viene accettato: ha sbagliato e ha pagato. Resta un eroe, anche se un eroe sfortunato.

Ma vedi come se la passano male questi giovanotti tornati ora dal Messico [i mondiali di calcio di Messico 1986]; non sono morti sul campo, perché morire non rientrava nelle regole del gioco. Hanno solo perso. “Solo” perso, eh? Ma come può succedere che loro, in un momento in cui si chiamavano “Italia”, abbiano perso? Non è possibile; se hanno perso vuol dire che sono stati dei pochi di buono; dei codardi; perché no? dei traditori. Sui giornali ho letto parole come “Caporetto” e “palude”. Anche “campioni senza valore” che dà un’idea cavalleresca, da paladini, di quel che è successo. Anche alla Tavola Rotonda sedeva un traditore, ed è finito male. Insomma, per quei giovanotti non esisteva soluzione: o sugli scudi o con gli scudi. Meglio per loro la morte piuttosto che la sconfitta. Se non hanno il trionfo, debbono patire la pubblica, implacabile disapprovazione.

Confesso che quei giovanotti che hanno perso e non sono morti hanno un che di non del tutto antipatico. Sono il simbolo, la rappresentanza di qualcosa che tutti noi conosciamo; sono i mediocri. Non sono eroi, non sono geni, non hanno inventato l’uomo con le ali. Non valgono molto. Ci provano. Se non gli riesce, chiotti chiotti se ne vanno a casa. E mentre rincasano, si prendono raffiche di insulti. E loro, zitti. Hanno praticato una attività non brillante, non seducente: la sconfitta. Non hanno fatto quel gesto provocatore e raro che è la vittoria. Non appartengono alla razza mitica dei vincitori. Macché: loro perdono. Hanno la coda tra le gambe. A me pare che la sconfitta sia una qualità umana, preziosa, e che tutti noi la conosciamo. Anche noi abbiamo quel problema, di convivere con la sconfitta, con il nostro modo impreciso di vivere. Si sa; proprio perché la sconfitta è una esigente compagna di strada, noi vorremmo che qualcuno si prendesse la briga di vincere per noi, come che sia. Ma di sconfitte è fatta la sterminata storia dei minuscoli anonimi “noi”. Esistono costituzioni che sanciscono il diritto alla felicità. Non mi dispiacerebbe che nella nostra venisse iscritto il diritto, oltre che al lavoro e alla casa, anche alla sconfitta.

Giorgio Manganelli, Improvvisi per macchina da scrivere, Adelphi, Milano 2003, pp. 159-160.