Arnaldo Cipolla e il «sentimento “pioniero” degli italici immigrati» in America

Viene sempre utile frugare fra le bancarelle dei libri usati, come aprire periodicamente a caso uno dei libri così rimediati. Guarda per esempio che salta fuori aprendo a pagina 119 Nell’America del Nord. Impressioni di viaggio in Alaska, Stati Uniti e Canada, di Arnaldo Cipolla, pubblicato da Paravia nel 1928.

Ebbene, benigno lettore, vivendo nel West, ho imparato che l’intensità dell’applicazione americana al lavoro è un magnifico bluff. Anzi è il bluff più colossale che gli americani abbiano diffuso sul loro conto. In primo luogo, su cento americani, il 35% soltanto, se pure, lavora effettivamente, produce; mentre il 65% si limita a fare il commissario, il piazzista, l’intermediario, l’uomo, in una parola, alla caccia degli affari, in un Paese dalle leggi alquanto approssimative, corrotto fino all’inimmaginabile e dove la sola cosa veramente rispettata e in onore è il commercio. La giornata di lavoro in America è di una brevità sorprendente, va sì e no dalle 11 alle 4 pomeridiane, con l’intervallo del lunch, e gli orologi degli uffici vengono messi avanti di un’ora, per aver maggior tempo da dedicare allo svago.

Del resto gli americani fanno benissimo a logorarsi l’esistenza il meno possibile, dal momento che il loro Paese è così vasto e così ricco che ogni sfruttamento, come ogni produzione, si ottengono con la quarta parte dello sforzo necessario a ricavare risultati analoghi in un’altra parte del mondo.

Non solo, ma gli americani godono essenzialmente del privilegio di essere padroni di un Paese che in questi ultimi trenta o quarant’anni non ha fatto, in ultima analisi, che accogliere e lasciar operare la genialità e il duro lavoro degli immigrati, soprattutto tedeschi e italiani. I quattro quinti dell’organizzazione industriale americana è d’origine tedesca, come idea tedesca furono i grattacieli, e scintille di genio italiano dettero vita a tutto quello che, per non parlar d’altro, l’America possiede di superbo nella sua agricoltura e di seducente nelle sue città. Naturalmente gli americani fingono di ignorare queste cose elementarissime e notissime. Non esiste un solo libro edito in America, che illustri la singola partecipazione e i meriti dei vari popoli nella formazione e nello sviluppo della Confederazione: un simile libro sarebbe del resto una specie di insulto alla nazione, di cui il ceppo originario, fondamentale, non ha mai cessato di rimanere essenzialmente fedele allo spirito religioso, fanatico, dei primi coloni, che è la negazione di ogni vera grandezza e di ogni positivo sviluppo. Le restrizioni odierne contro l’immigrazione non sono in fondo che la reazione di cotesto purissimo, autentico spirito americano, ai danni degli autori effettivi della grandezza del Continente.

Quando era ancora in discussione la legge contro l’immigrazione italiana («Johnson bill») si accusarono i nostri connazionali di agglomerarsi nei quartieri popolari delle maggiori città, rifiutandosi di dedicarsi alla messa in valore agricola dei territori. La verità è ben diversa e lo comprova la più recente Carta agricola dell’America, dove appaiono ventisei vasti centri di coltivazione puramente italiana, situati in dodici Stati.

L’affluenza italiana nelle città, era soltanto transitoria, gli italiani si spinsero presto alla ricerca di migliori fortune, nelle parti meno note e più lontane dell’Unione, disseminando dovunque le millenarie conoscenze agricole della razza, dando un’insorpassabile prova del sentimento «pioniero» degli italici immigrati e del loro indomito coraggio. L’agricoltura americana, prima della «rush» italica, che culminò negli anni immediatamente precedenti alla guerra, si limitava ai prodotti fondamentali: grano, cotone, legname. Poco sviluppate erano l’orticoltura e la frutticoltura. Furono gli italiani che iniziarono le mastodontiche produzioni della frutta e degli erbaggi, facendone uno dei più ricchi commerci americani. Innumerevoli varietà di squisite verdure commestibili, popolari in Italia ma ignote in America, sono divenute indispensabili a tutte le mense. I broccoli, i carciofi, la lattuga, le melanzane, i pomodori, i peperoni; portano al pasto americano una varietà e un gusto nuovi. Il popone «cantalupe» viene dalle vicinanze di Roma, l’honey dew, dalla campagna di Napoli, la pesca toscana si è moltiplicata nella Georgia, la prugna italiana, in California – dove gli aranci ed i limoni siciliani si riproducono per invadere tutti i mercati del mondo – e le uve di Piemonte, danno miliardi di dollari a San Francisco. Così pure i migliori polli americani sono originari di Livorno e di Ancona. La produzione di formaggi all’italiana arricchisce due regioni del Wisconsin.

Dallo Stato di New York fino a San Diego, in California, prosperano quattordici enormi centri italiani di frutticoltura. Il farming italiano si è affermato specialmente nel Long Island, nel Connecticut, nel Rhode Island, nella Pennsylvania, nello Stato di New York, nella California. Nel Texas, nel Missouri, nell’Arkansas, nell’Alabama, nel Michigan, gl’italiani hanno creato una produzione gigantesca di ortaggi. Dove il coltivatore anglo-sassone abbandona la terra perché non gli rende abbastanza, arriva il coltivatore italiano che, con la magia della sua arte, fa sorgere immensi giardini.

L’America deve alla immigrazione italiana immisurabili e nuove risorse che poche decine di anni fa nessuno si sarebbe mai sognato. Ma l’immigrazione è chiusa agli italiani e aperta agli indii messicani…