Sulla poesia e i poeti

[Nella giornata mondiale della poesia che si celebra il primo giorno di primavera, la riproposizione di due assaggi di traduzione da un libro del 1998 della scrittrice catalana Nuria Amat.]

Simone Weil, sorta di istitutrice mistica delle lettere, una volta disse, a ragion veduta: «Il popolo ha bisogno della poesia come del pane». Prima e dopo di lei, alcuni scrittori, i più credenti, conservano, nell’angolo più felice del loro disincanto, la stessa fede, inutile, nella poesia, anche se rovesciano senza rimedio la frase della Weil: perché il popolo, o, se si vuole, l’individuo, non ha più bisogno della poesia come del pane? E perché nemmeno come un dolce?

La scrittrice Ingeborg Bachmann […] rispondeva alla Weil: «Poesia come pane? Un pane che dovrebbe stridere tra i denti come sabbia, e risvegliare la fame piuttosto che placarla. Una poesia che dovrà essere affilata di conoscenza e amara di nostalgia se vorrà scuotere l’uomo dal suo sonno». (1)

Il poeta è il pazzo più pericoloso della storia. Si siede a scrivere pensando che si possa cambiare il mondo con una poesia. E naturalmente questo è impossibile. Non c’è sogno più folle che cambiare il mondo con un verso. Eppure, questa è la condizione del verso. Un sogno impossibile su un mondo possibile o un paradiso sventurato. Come un trovatore rivolgeva la sua inquietudine alle stelle, così il poeta di oggi sussurra le sue poesie nello schermo abissale dell’elettronica. Nessuno lo ascolta, però. Nessuno gli fa caso. Ma così continua la poesia. Scritta. Nell’attesa. Tessendosi. Diffusa nel mondo delle lettere come un virus informatico. E tuttavia, quale scrittore non vorrebbe, in fondo, essere poeta? (2)

[…]

I poeti non dicono la verità ma nemmeno mentono. Negano non meno di quanto affermano. Le loro poesie si muovono nel magma dell’indeterminatezza. E della contraddizione eterna. E della verità-menzogna. Sì ma no, è il balbettio ininterrotto del poeta cosciente. Gli scrittori sostengono di essere autentici e sinceri quando scrivono. I poeti, invece, non perseguono né la verità né la menzogna. Una poesia è come un’apparizione. È o non è. Può e non può essere vista. Tutto dipende dagli occhi quando guardano la poesia che si para davanti a loro, e anche dallo sguardo più o meno sghembo o più o meno a fuoco di questi occhi.

Il poeta che prediligo evita di poeticizzare le cose. Poeticizzare, per esempio, la morte e la vita. Dietro una poesia c’è un sipario, e un poeta ci aiuta a sollevarlo con la forma precisa della parola. Per questo i poeti, per essere sempre più precisi, ripetono e ripetono le parole, i silenzi, i versi, la poesia. Insistenti. Un poeta non può mai smettere di scrivere. Anche se non scrive.

La vita quotidiana evita i poeti come la peste. Solo parole e menzogne, gli rimproverano. Quando in realtà quel che non sopportano del poeta è questo vocio esistenziale e muto che sprigiona la sua scrittura. (3)

Nuria Amat, Letra herida, Alfaguara, Madrid 1998, pp. 24-26.

(1) Ingeborg Bachmann, «Domande e pseudodomande», in Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, traduzione di Vanda Perretta, Adelphi, Milano 1993, pp. 29-30.

(2) Già su fogliedivite.wordpress.com, 2 marzo 2004.

(3) Già su fogliedivite.worpress.com, 17 aprile 2004.