L’impossibilità di riprendere da dove si lascia

È un fatto, una verità da cui non si può prescindere: nella vita non si riprende mai dal punto esatto in cui si è abbandonato qualcosa, di qualunque cosa si tratti. Lo sai bene, per esperienza personale. Lo hai anche già scritto, in forma di post:

Ogni pausa, ogni vacanza, ogni periodo di riflessione e ogni cambio di stagione, climatica e non, determinano piccoli e grandi mutamenti. Va dunque bandita l’idea che dopo una sosta si possa ripartire tali e quali al prima. Lo dicono anche Robert Musil in L’uomo senza qualità – «quello che era una volta non sarà mai più allo stesso modo» – e Ingeborg Bachmann in Trentesimo anno: «a nessuno è dato riprendere dal punto in cui ha interrotto».

Lo ritrovi confermato anche nella traduzione che hai in corso.

Il protagonista, chiamiamolo X, sta per tornare dalla seconda guerra mondiale, dopo tre anni trascorsi pericolosamente sul fronte asiatico. È un po’ – diciamo anche molto – perso. A parte tutto lo scombussolamento fisico e mentale provocato dalla guerra, la moglie, con cui era sposato solo da pochi mesi prima che si arruolasse, gli ha appena scritto una lettera in cui chiede il divorzio. Il matrimonio è dunque finito e lui è di nuovo scapolo. Anche la famiglia d’origine non vive più dove l’aveva lasciata, e in ogni caso non potrebbe essergli granché d’aiuto. Tornando in America ha però la possibilità, grazie al GI Bill, di riprendere gli studi universitari (dopo averli precocemente abbondati, prima della guerra, per perseguire una vocazione vagamente artistica, in ambito teatrale, e poi lavorare come tuttofare in un paio di radio locali) e, in questo modo, dare magari un più chiaro indirizzo alle ambizioni non troppo recondite di diventare uno scrittore. Cerca così consiglio qua e là, tra vecchie e nuove conoscenze.

Tra le varie lettere che riceve prima di ripartire per l’America c’è quella di un amico dei tempi delle esperienze teatrali amatoriali, che lo mette al corrente di nuovi promettenti progetti e gli comunica che, appena rimetterà piede lì, se gli interessa intende coinvolgerlo in qualcosa di grandioso. In poche parole gli dice che, se si dà una mossa, possono riprendere da dove hanno lasciato.

X, però, sa bene di essere cambiato nei tre anni di guerra: il suo vecchio io è come morto e, anche se il nuovo è di là da venire, è praticamente impossibile riprendere da dove ha lasciato, tornando a fare le cose esatte di prima. Anzi, ed è qui che comincia a emergere con forza una nuova maturità, il germe della futura identità, X proprio non vuole riprendere da dove ha lasciato, perché ha già intimamente capito che non funzionerebbe.

Ma dal dire o pensare al fare ce ne passa sempre. Perché, anche quando si sa che non si è – e non si può né si vuole essere – più quelli di prima, alla prova dei fatti è raro attaccare subito una nuova vita con qualcosa di totalmente nuovo: di un appiglio col passato abbiamo sempre bisogno, anche nei momenti di forte cambiamento. Anzi, di solito è proprio al passato – quantomeno quella parte del passato cui siamo maggiormente legati e che ci ha dato maggiori soddisfazioni – che riandiamo nel momento di dover ripartire per qualcosa di nuovo. Solo per gradi poi ce ne sganciamo, fino a essere davvero nuovi, al termine di un processo spesso lungo, tortuoso e faticoso.

Quello che in effetti succederà anche a X.

Se vogliamo, anche quello che dice Camilla Baresani in La vita come elaborazione del gusto, all’interno del volume Il piacere tra le righe. Le seduzioni della lettura (Bompiani, Milano 2003, pp. 107-108):

Accompagna la nostra vita un continuo e sommesso adottare passioni e piaceri, per poi protendersi e superarli. In genere si tratta di un’evoluzione indirizzata alla ricerca di qualcosa che ci incuriosisce perché non ci è già noto: e la formula ideale di questa novità è quella che contiene un minimo di elementi del passato, per mantenere un appiglio a certezze e conoscenze già acquisite, e che in seguito – in modo cauto o brutale – sono destinate a modificarsi.